Soppressioni, requisizioni ed esperienze di restauro tra Sette e Ottocento

Di Laura Corchia

Tra Settecento e Ottocento, moltissimi tesori d’arte furono interessati da due fenomeni assai rilevanti: le “soppressioni” e le “requisizioni”.

Molte opere d’arte vennero distrutte, vendute o trasformate, altre entrano a far parte delle collezioni dei nascenti musei pubblici, in virtù della funzione educativa assegnata loro dal nascente illuminismo.

Il fenomeno delle soppressioni era iniziato in Toscana già prima della Rivoluzione Francese. La Chiesa aveva accumulato per secoli dei beni fondiari e immobili che non producevano ricchezza. Per rimettere in moto l’economia, si pensò di requisirli e di metterli in vendita. In questi casi, il restauro rivestiva un ruolo prettamente funzionale. Si pensi al caso di alcuni affreschi che vennero staccati in conseguenza di una nuova destinazione d’uso degli immobili.

La prima serie di soppressioni fu quella “leopoldina”, alla quale seguirono altre due: quella francese o napoleonica” (1799-1800) e quella successiva all’Unità d’Italia.

La Rivoluzione francese portò ad un comportamento diversificato nei confronti delle opere d’arte. Da una parte si registrarono infatti numerosi atti di vandalismo, che interessarono soprattutto le effigi reali, dall’altra una politica volta alla tutela, attraverso la musealizzazione di opere che dovevano essere testimonianza della storia e del passato.

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Per quando concerne le requisizioni francesi in Italia, esse avvennero sotto forma di confisca, come pagamento dei danni di guerra.

Il trasporto delle opere a Parigi avvenne all’interno di casse e per mezzo di carri realizzati appositamente. Tuttavia, tali precauzioni non furono sufficienti a proteggerle dalle intemperie e i documenti dell’epoca le descrivono come “bagnate”. All’arrivo, pertanto molte di esse necessitavano di un restauro, eseguito da François Toussaints Hacquin, inventore di una foderatura a base di resine, oli e biacca e detta perciò “grassa”. Tra le opere italiane restaurate in Francia, merita attenzione la Madonna di Foligno di Raffaello. Dell’intervento possediamo una accuratissima relazione pubblicata nel 1882. L’opera presentava diversi problemi, causati soprattutto dall’umidità: una spaccatura centrale che causava una infossatura “ad ali di gabbiano” e diffusi sollevamenti di colore. Si cercò in primo luogo di raddrizzare la tavola, poi si praticò una protezione della pellicola pittorica attraverso garza e due strati di un leggero cartone (operazione detta cartonnage) ed infine si cominciò a demolire il supporto con l’ausilio di strumenti via via più fini e venne rimossa la preparazione. La seconda fase riguardò il miglioramento della superficie del colore, che venne intrisa di olio per farla ritornare elastica. Poi nella costruzione della nuova preparazione non usò una a base di gesso, colla e biacca, secondo la tecnica usata da Raffaello, ma stese una preparazione interamente fatta di biacca ed olio.

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Raffaello Sanzio, Madonna di Foligno (part.), 1511-12, olio su tavola trasportata su tela, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano
Raffaello Sanzio, Madonna di Foligno (part.), 1511-12, olio su tavola trasportata su tela, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano

La Santa Cecilia di Raffaello fu anch’essa trasportata da tavola a tela e il ritocco fu effettuato con colori ad olio. Dopo la Restaurazione, rientrò a Bologna e fu collocata nel Museo dell’Accademia di Belle Arti.

Nel Museo parigino venivano effettuati anche restauri di tipo tradizionale, come la foderatura delle tele, la pulitura ed il ritocco.

La Bella di Tiziano fu foderata e mostra attualmente dei problemi legati all’eccessivo uso del calore e della pressione usati. Il colore infatti risulta schiacciato e le pennellate hanno perso la loro tridimensionalità.

Con la successiva sconfitta di Napoleone, i dipinti vennero in gran parte recuperati e diventarono gli ambasciatori viaggianti della tecnica di restauro francese.

Negli atti del Congresso di Vienna (1815), le varie nazioni misero come clausola la restituzione delle opere trafugate. Lo Stato della Chiesa inviò in Francia Antonio Canova, mentre il Granducato di Toscana non ritenne conveniente far rientrare opere, tra cui la Maestà di Cimabue, considerate di poco valore.

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