Roy Lichtenstein: cartoons al museo

di Laura Corchia

“Un giorno mi è venuta l’idea di mettermi a dipingere argomenti banali. Avevo già fatto qualche disegno di biglietto da dieci dollari e dei lavori con i cartoons alcuni anni prima, in un contesto astratto impressionista. Ho cominciato a inserire immagini di fumetti nascoste nelle mie pitture. Erano Topolino, Paperino, Bugs Bunny. Poi disegnavo piccoli topolini e altri pupazzetti per i miei figli, copiando soggetti dagli involucri delle gomme da masticare e riproducendoli in grande. All’inizio facevo cose pacchiane, non ero bravo come i fumettisti”.

Con queste parole, Roy  Lichtenstein (1923-1997) descrisse la sua arte, fatta di fumetti riprodotti in grandi dimensioni.

Nato a New York nel 1923, insieme a Oldenburg e Warhol, Roy Lichtenstein è senza dubbio uno dei massimi interpreti della Pop-Art. Figlio di un agente immobiliare e di una casalinga con la passione per il pianoforte, Lichtenstein si formò presso l’Art Students League. Influenzato dalla grafica pubblicitaria e dal disegno industriale, partecipò alla Seconda Guerra Mondiale andando a combattere sul fronte europeo e, alla fine del conflitto, insegnò all’Università dell’Ohio.

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Roy Lichtenstein, M-Maybe, 1965
Roy Lichtenstein, M-Maybe, 1965

Dopo un esordio pittorico cubista, si accostò all’Informale. La svolta pop avvenne nel 1961, dopo l’incontro con Andy Warhol. Il suo processo creativo fu abbastanza meccanico: partiva dalla scelta di una vignetta e ne aumentava le dimensioni sulla tela. A questo punto ricalcava le linee di contorno ripassandole poi con i colori ad olio o con smalti sintetici. I colori venivano campiti in modo piatto ed uniforme. Lichtenstein mutava gli spessori dei contorni, dei tratteggi e delle retinature tipografiche, in modo da farli apparire fuori scala ed irreali. Se si osserva M-Maybe (a Girl’s Picture), si notano sul volto della ragazza bionda dei piccolissimi puntini rossi. Si tratta di un procedimento tipografico di stampa che, nel caso dei normali fumetti, non si nota.

Roy Lichtenstein, Whaam! 1963
Roy Lichtenstein, Whaam! 1963

L’artista utilizzava una ridottissima gamma di colori, primo fra tutti il nero. Anche se a primo impatto la sua arte potrebbe apparire priva di senso, in realtà nascondeva un significato culturale: nella società dei consumi, il fumetto rappresentava l’unica forma letteraria in grado di sopravvivere e l’artista se ne servì per veicolare il proprio messaggio.

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Oltre ai fumetti, Lichtenstein si rivolse anche alle cartoline illustrate, simbolo consumistico per eccellenza dell’immagine del paesaggio. Tutto diveniva un mito da consumare, alla stessa stregua della Coca-Cola e di Paperino. Interessanti, a tal proposito, si rivelano le sue parole: “Non sono molto sicuro del tipo di messaggio contenuto nella mia arte, ammesso che ve ne sia uno. A dire il vero io non intendo trasmetterne alcuno. Non mi interessa una tematica che insegni qualcosa alla gente, – concluse – o che cerchi in qualche modo di migliorare la nostra società”. 

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