Nella bottega di Antonio Canova. Le tecniche e i segreti

4ec2f7803a55208ee53d4f38605fdb0a-1

“II Canova”, scriveva il pittore Francesco Hayez nelle sue Memorie, “faceva in creta il suo modello; poi gettatolo in gesso, affidava ; il blocco a’ suoi gio­vani studenti perché lo sbozzassero e allora cominciava !’opera del gran maestro. […] Essi portavano le opere del maestro a tal grado di finitez­za che sì sarebbero dette ter­minate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza di marmo, la quale era poi la­vorata da Canova più o meno secondo quello che questo il­lustre artista credeva dover fare”.

Il processo creativo di Canova era formato da quattro fasi, la prima delle quali era rappresentata dal disegno. Considerata una vera e propria palestra quotidiana, la pratica di fermare i propri pensieri sulla carta rappresentava un modo per studiare i modelli e per immaginare il lavoro finito.

a22c14e3fbf1e0d6ab820ca4142e1eac

Il passo successivo era rappresentato dalla realizzazione di un bozzetto in terra cotta o cruda o in cera. Sotto le mani dell’artista, le figure precedentemente disegnate prendevano forma e successivamente si venivano trasposte  in un altro modello a grandezza naturale,  avvalendosi di uno scheletro portante compo­sto da un’asta in ferro, alta quanto l’opera da eseguire, e collegata a più piccole aste metalliche munite alle estre­mità di crocette di legno.

Come si può leggere in Scultura Italiana: “que­sto nuovo metodo, ideato da Canova e applicato fin dal tem­po del monumento di Clemente XIV, permetteva (come egli stesso precisa in una let­tera al bibliotecario Daniele Francesconi) “di far reggere la creta anche in macchine gran­di assai, e in figure fuori di piombo”. Esso offriva il van­taggio di poter valutare fin nel­lo studio, e prima di por mano al marmo, le proporzioni, le in­cidenze luminose, l’effetto ge­nerale dell’opera.

Lo stesso Ca­nova ne dà una precisa giu­stificazione in una lettera a Quatremère de Quincy (17 gen­naio 1810): “L’avversione che ho sempre avuta al modo di lavorare al gesso o sia in stuc­co, conoscendo dimostrativa­mente che il lavoro in quella materia riesce sempre duro e stentato, questo appunto mi ha fatto risolvere, sino da’ miei primi anni, ad attaccarmi alla creta. E di fatti ho avuto la te­merarietà d’intraprendere i mo­delli delle statue del Monu­mento Ganganelli, della stessa grandezza: cosa non più ac­costumata in Roma prima di quell’epoca, mentre tutto lavo­ravansi nello stucco, quando dovevano fare un modello poco più grande della metà del vero”.

Leggi anche  "Nostalgia": una straordinaria poesia di Giuseppe Ungaretti

II passaggio dal modello in creta a quello in gesso si at­tuava con la tecnica della “for­ma persa”. La creta modellata, rivestita da un leggero strato di gesso rossigno, veniva rico­perta da uno strato di gesso bianco. Asportata la creta, si colava il gesso all’interno del­la “matrice” che veniva infine distrutta, procedendo con la massima cautela al comparire dell’intonaco rossigno. Dopo aver fissato sul modello così ottenuto i “punti” chiave, i la­voranti dello studio procedeva­no alla sbozzatura del marmo; l’opera quindi veniva trasferi­ta nella stanza di Canova per ricevere quella ch’egli stesso e i contemporanei chiamano “l’ultima mano“: fase impor­tantissima del lavoro esclusi­vamente riservata all’artista, che dava gli ultimi tocchi a lume di candela. Da ultimo in­terveniva il “lustratore” che, la­vorandovi più giorni, conferiva al marmo una diafana lucentez­za. Canova usava anche sten­dere sulle parti epidermiche una speciale patina: sì sarebbe trattato, secondo alcuni, di pie­tra pomice o di una tintura gial­lognola; di “fuliggine” per il Fernow (1806); “pura cera” e “acqua elaborata dallo spezia­le” per G. B. Sartori; “acqua di rota” (cioè l’acqua sporca del­I’arrotamento degli strumenti metallici) per il Cicognara.


modello in gesso della Danzatrice col dito al mento

Lo scultore stesso ne parla in una lettera a Quatremère de Quincy (14 settembre 1805): “vi posso assicurare che io ho lasciate diverse opere mie senza encau­sto, avendovi solo passato so­pra, col pennello, dell’acqua della ruota su cui si aguzzano li ferri del lavorare; e ciò con buon effetto in quanto all’ap­parenza. […] Ma bisogna sem­pre premettere che il lavoro sia bene finito e ridotto alla possi­bile perfezione. A dirvela netta netta, io ho costumato più vol­te di dare l’encausto con pol­vere di cera stemperata a pen­nello nello spirito di vino, e la cosa mi è riuscita a meraviglia. Altre volte ho fatto […] diver­samente, come davami il ca­priccio”.

Fra i primi a parlar­ne è il Marchesini nel 1795 il quale, a proposito del gruppo Venere e Adone, nota la diversità di tono fra il panno bianco e i corpi (Biblioteca, 1823). Lo scopo, comunque, è di anticipare possibilmente gli effetti del tempo, il quale so­vente dà alle opere quell’accor­do e quell’armonia che l’arte può difficilmente imitare” (Mis­sirini, 1824). Della patina non rimane oggi più traccia; tuttavia sembra che questo finale inter­vento sul marmo non rivestisse eccessiva importanza. Fonda­mentale, invece, per la qualifi­cazione estetica dell’opera è l’accuratezza dell’ultima mano”.

Leggi anche  Meraviglie di Spagna: l'Alhambra, il gioiello moresco di Granada

A illustrarne il valore conver­rà riportare un brano del Cicognara (1823) che bene puntua­lizza le fasi e il significato del metodo di lavoro del Canova. “E convien dire che non erano in uso allora le pratiche che a poco a poco egli stesso andò introducendo, cioè di valersi delle braccia subalterne per di­grossare i marmi fino all’ultimo strato di superficie, il che fu da lui immaginato con perfe­zionare all’ultimo grado i mo­delli sulla grandezza in cui debbe condursi il marmo, on­de mediante l’esattezza dei punti e delle misure potesse meccanicamente avanzarsi il la­voro: l’ultima mano però fu sempre da lui posta alle opere sue, portando con questa ì sas­si a quella morbidezza, a quel­la dolcezza di contorni, a quel­la finezza di espressione, che inutilmente si è cercata e dif­ficilmente si troverà nelle ope­re de’ suoi contemporanei; e la somma distanza che rimarrà fra questi e il Canova pare ver­rà segnata particolarmente da queste ultime finezze dell’arte, alle quali non potrà giungere mai chi non è addimisticato al maneggio dei ferri, e crede rac­comandar la sua gloria alle braccia subalterne de’ lavorato­ri. L’ultimo passo nelle arti, e le minime differenze sono quel­le che costano il più di sudori, e portano ai sommi risultamen­ti; e in questo si ammirò l’in­sistenza di Canova sino nell’ul­tima delle sue opere”.

Lungi dal consistere in un banale “ultimo tocco” a opere prati­camente finite (come opinava­no, ad esempio, Fernow e Stendhal), `l’ultima mano” è, in sostanza, un suggello d’au­tografia; ed è in questa fase essenziale che Canova appor­ta le più decisive modifiche rispetto al modello in gesso. Per questa ragione non è le­cito assegnare allo scultore, se non per l’ideazione del mo­tivo, i marmi rimasti incompiu­ti nello studio alla sua morte.

Per conseguire l’effetto di “finito” e la straordinaria gra­dazione di passaggi che carat­terizza le sculture, l’artista si serviva di una quantità di nuo­vi strumenti (ch’egli riteneva si­mili a quelli adoperati nell’an tichità): “ad agevolarsi la via a questo fine, inventato ei s’a­vea nuovi ferri, e raschiatori, e trapani, e punte d’ogni ma­niera, ed ogni parte col suo particolare ferro riduceva” (Mis­sirini, 1824). E probabile che, nel suo complesso, questo si­stema di lavorazione derivi dalla pratica dei copisti romani di statue antiche (Honour, 1972). Esso privilegia, comunque, il momento iniziale dell’ideazione e quello finale con l’intervento diretto e conclusivo dell’arti­sta sul marmo, risolvendosi in un rigoroso processo di `subli­mazione’ dell’immagine: dalla violenza della prima intuizione, captata in segni che smargina­no nell’informe, si approda al­la contemplata serenità della pura forma, secondo un percor­so che, con terminologia idea­listica, promuove il passaggio dall'”io empirico” all”io tra­scendentale”. Tutto questo è possibile grazie alla trasformazione di una serie di pratiche artigianali in una “scienza ese­cutiva” (Missirini); la tecnica, in sostanza, diventa “metodo” inerente al processo creativo: un metodo che esige concen­trazione e riflessione, contro l’avventura dell’improvvisare e il “capriccio” cui sembrava si fossero abbandonati gli artisti rococò. “[…] Lo scalpello pro­cedeva coi metodi del pennello; e compiuto un lavoro eravi poi ‘Ira la creta e il marmo quella differenza, che nella pittura passa fra il cartone e la tavo­la”, annota il Missirini, che ri­ferisce anche queste parole del Canova: “Or bene: io mi vo’ adoperare colla lima tanto, che arrivi ad ottenere senza il co­lore l’effetto del colore stesso, e far che [l’opera] sia più bella e più rida”. Evidentemente la cura infinita con cui lo sculto­re rifiniva ogni suo lavoro non mirava a effetti virtuosistici, quanto piuttosto a conferire al­l’immagine una definitiva auto­nomia, una vita propria, fissata in quel punto estremo in cui lo spazio dell’esperienza riflui­sce nella dimensione dell’idea­le.

Leggi anche  Giorgio Morandi, il silenzioso pittore delle quotidiane cose

Canova non ha avuto, né ha voluto allievi: non si possono infatti considerare tali i lavo­ranti dello studio. Ciò può ap­parire quantomeno singolare se si considera l’opera di aiuto da lui prestata incessantemente a favore delle belle arti, delle accademie e degli stessi artisti bisognosi. La ragione, allora va indicata nel fatto che egli era consapevole che, se pote­va insegnare un metodo di la­voro, non poteva invece tra­smettere il segreto della sua arte. In questa coscienza del­l’originalità dell’artista, della singolarità di ogni sua espres­sione, si può rilevare un con­notato non secondario della modernità del Canova”.