Monet e il tempo delle Ninfee


Di Laura Corchia

Quando René Gimpel e Georges Bernheim si recarono nel 1918 a vedere l’ultima opera di Monet, apparve loro uno strano e affascinante spettacolo: “Un panorama fatto d’acqua e di ninfee, di luce e di cielo. In quell’infinità acqua e cielo non avevano né inizio né fine. Ci parve d’essere presenti a una delle prime prime ore della nascita del mondo”. Quanto sforzo costarono a Monet lo rivela una confessione del 1925: “Non dormo più per colpa loro. Di notte sono ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare. […] Ciononostante non vorrei morire prima di aver detto tutto quel che avevo da dire; o almeno aver tentato di dirlo. E i miei giorni sono contati. Domani, forse…”

Negli anni della vecchiaia Monet dedica tutte le sue energie al giardino. Ne mette in evidenza il fascino e la poesia in un’incalcolabile quantità di composizioni. Ma, più ancora degli alberi e dei fiori, la sua attenzione è catturata dagli specchi d’acqua e dal sottile gioco di luci alle diverse ore del giorno. Nel 1890 confida: “Ho di nuovo ripreso cose impossibili da fare: dell’acqua con erba che ondeggia sul fondo… è stupendo da vedere ma è pura follia volerlo fare”.

Nel 1914, dopo una malattia agli occhi, Monet fa costruire un terzo atelier a Giverny e fa sistemare le tele su telai lunghi oltre quattro metri. lavora su schizzi o sulla memoria e dipinge senza sosta: “Dipingo di giorno, ma dipingo anche la notte, in sogno”.

Alla fine della prima guerra mondiale dona allo stato queste opere. Clemenceau tiene ad assegnare loro le sale dell’Orangerie. Monet si spegne il 5 dicembre 1926. Nel maggio dell’anno successivo, le Ninfee vengono inaugurate alle Tuileries.

Più delle nostre parole, per comprendere la genesi delle Ninfee illuminante si rivela l’articolo di F. Thiébault-Sisson pubblicato in la Revue de l’Art Ancien et Moderne nel giugno 1927:

“Erano i primi giorni del febbraio 1918 eppure era già primavera. Ai lati della strada che mi portava a Giverny i contorti candelabri degli olmi, alti cinquanta, sessanta piedi, erano cosparsi di puntini dorati, nuovi bocci che costituivano un ornamento adeguato di luminosità, ricchezza discreta, freschezza. Il lieve calore del sole splendente ed un cielo di un azzurro raggiante, gioioso e senza nuvole si venivano ad aggiungere al fascino di quella giornata, e fu con quella luce perfetta che vidi per la prima volta, sebbene ancora incompiute, quelle grandi Ninfee che il pittore avrebbe presentato tre anni dopo allo stato e che lo stato ha adesso installato nella vecchia Orangerie delle Tuileries in un’ambientazione di gusto impeccabile e semplicità estrema. Le otto tele che formano questo meravigliso insieme sono adesso ospitate in due grandi stanze ovali dai soffitti abbastanza bassi, le pareti sono alte tanto quanto è necessario per creare una fascia di colore grigio-beige attorno ai dipinti […]

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Avvertito della mia visita, Claude Monet mi aspettava sulla porta. Mi ricevette come soltanto lui sa fare quando è di buon umore: sorridente, lo sguardo acceso e allegro, la sua stretta di mano calorosa e cordiale. I suoi sessantotto anni non gli pesavano e non lo avevano cambiato. Si muoveva ancora con la stessa vivacità nervosa, era ancora estremamente vigile e si vestiva sempre con la stessa attenzione di una volta. Le sue mani sbucavano dalle maniche della giacca, magre, sottili, attorno ai polsi una leggera nuvola di tulle increspato, alla vecchia maniera. Solo la lunga barba, quasi totalmente bianca, che gli incorniciava il volto, simile a quello di un anziano sceicco dal naso aquilino, attestava il passare degli anni.

«Pranziamo prima» disse «le cose serie dopo mangiato». E nella sala da pranzo, tappezzata di giallo limone contornato di blu, dove sono appesi acquerelli e disegni giapponesi, diede prova di un sincero appetito e vuotò il suo bicchiere come un uomo che apprezza le cose buone della vita e le assapora lentamente. Dopo il caffè andammo in giardino e dal giardino attraversammo la strada e i binari della ferrovia, dove i treni non passano più, ed entrammo nel regno delle Ninfee. Mentre camminavamo mi descrisse come aveva realizzato il tutto. In un prato completamente vuoto, privo di alberi ma irrigato da un braccio tortuoso e gorgogliante del fiume Epte, era riuscito a creare un giardino da favola scavando un grande stagno al centro e piantando sulle sue sponde alberi esotici e salici piangenti, i cui rami pendevano con le loro lunghe braccia verso la superficie dell’acqua. Attorno allo stagno aveva tracciato sentieri con graticci di fogliame, sentieri tortuosi che si incrociavano più volte per creare l’illusione di un piccolo parco. E nello stagno aveva piantato migliaia e migliaia di ninfee, varietà rare e con i più bei solori dell’arcobaleno: dal violetto, rosso e arancio al rosa, lilla e malfa e infine, sopra l’Epte, nel punto dove esce dallo stagno, aveva costruito un ponticello rustico a schiena d’asino come quelli che dipingevano nelle gouaches settecentesche e sulla toile du Jouy.

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Da quando aveva finito di pagare la sua proprietà […] aveva messo da parte del denaro e, non appena si era convinto di poter di nuovo spendere, si era abbandonato a queste costose fantasie da ricco proprietario terriero dell’ancien régime. Tuttavia le tele ispirate a questo suo ultimo amore lo avevano più che compensato per i soldi che aveva investito. «Qui» mi raccontò, «potete vedere tutti i motivi che ho trattato tra il 1905 e il 1914, ad eccezione delle mie impressioni di Venezia. Ho dipinto tante di queste ninfee, cambiando sempre punto di osservazione, modificandole a seconda delle stagioni dell’anno e adattandole ai diversi effetti di luce che il mutar delle stagioni crea. E, naturalmente, l’effetto cambia costantemente, non solo tanto da una stagione all’altra, ma anche da un minuto all’altro, poichè i fiori acquatici sono ben lungi dall’essere l’intero spettacolo; in realtà sono soltanto il suo accompagnamento. L’elemento base è lo specchio d’acqua il cui aspetto muta ogni istante come per i brandelli di cielo che vi si riflettono conferendogli vita e movimento. La nuvola che passa, la fresca brezza, la minaccia o il sopraggiungere di una tempesta, l’improvvisa folata di vento, la luce che svanisce o rifulge improvvisamente, tutte queste cose che l’occhio inesperto non nota, creano variazioni nel colore ed alterano la superficie dell’acqua: essa può essere liscia e non increspata e poi, improvvisamente, ecco un’ondulazione, un movimento che la infrange creando piccole onde quasi impercettibili, oppure sembra sgualcire lentamente la superficie conferendole l’aspetto di un grande telo di seta spruzzato d’acqua. Lo stesso accade ai colori, al passaggio della luce all’ombra, ai riflessi. Per ricavare qualcosa di questo continuo mutare bisogna avere cinque o sei tele sulle quali lavorare contemporaneamente e bisogna spostarsi dall’una all’altra tornando rapidamente alla prima non appena l’effetto interrotto riappare. É un lavoro veramente estenuante, ma quanto è seducente! Cogliere l’attimo fuggente, o almeno la sensazione che lascia, è già sufficientemente difficile quando il gioco di luce e colore si concentra su un punto fisso, la silhoutte di una città, un paesaggio immobile. Ma l’acqua, essendo un soggetto così mobile e in continuo mutamento, è un vero problema, un problema estremamente stimolante perché ogni momento che passa la fa diventare qualcosa di nuovo e inatteso. Un uomo può dedicare l’intera vita a un’opera simile; io l’ho fatto per otto o nove anni e poi ho smesso improvvisamente colto da un’inspiegabile angoscia».

«Come mai?» chiesi.

«I colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti della luce con la stessa precisione. le tonalità del rosso cominciavano a diventare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo assolutamente a captare i toni intermedi o quelli più profondi. Le forme, quelle riuscivo ancora a vederle con la stessa chiarezza e a disegnarle con la stessa precisione. Inizialmente volevo continuare. Passavo il tempo qui presso il ponticello, proprio dove siamo adesso, e stavo ore e ore sotto il sole cocente protetto dal mio parasole sulla mia sedia pieghevole, costringendo me stesso a continuare il mio compito interrotto e a ritrovare la freschezza, ormai svanita, della mia tavolozza! Tutto vano. Il mio quadro diventava sempre più scuro e sempre più antiquato e, appena finita la sofferenza, lo confrontai con opere precedenti. Mi venne un attacco di ira e lacerai tutte le tele con il temperino. Naturalmente non c’è bisogno di dire che nel frattempo avevo consultato tutti i migliori oculisti che potei trovare. Rimasi sgomento per le opinioni contraddittorie che mi furono espresse. Qualcuno mi disse che era la vecchiaia e il conseguente e progressivo indebolimento degli organi; altri, e secondo me avevano ragione loro, mi fecero capire tergiversando non poco che mi stavano vedendo le cataratte e che in futuro un’operazione mi avrebbe potuto guarire. Furono comunque cauti nel dirmi che il lento progredire dei miei sintomi dimostrava che ci voleva ancora tempo perché la mia affezione si sviluppasse appieno e che quindi ci sarebbero voluti degli anni prima di poter fare l’intervento. Comunque, tutti erano d’accordo su un punto: la necessità di assoluto riposo. […] Giunse infine un giorno, un giorno benedetto, quando ebbi la sensazione che la mia malattia fosse provvidenzialmente passata. Provai una serie di esperimenti per rendermi conto dei limiti e delle possibilità della mia vista e con grande gioia scoprì, nonostante fossi ancora insensibile alle ombreggiature più fini e alle tonalità dei colori visti da vicino, che i miei occhi non mi tradivano se facevo qualche passo indietro e assimilavo l’immagine nel suo insieme. E fu questo il punto di partenza per le composizioni che state per vedere nel mio studio. Un punto di partenza molto modesto, naturalmente. Ero esitante e non volevo lasciare niente al caso. Cominciai pian piano a mettermi alla prova facendo innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che, in primo luogo, lo studio della luce naturale non era più possibile per me, ma d’altro canto mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colori non rientravano più nella sfera delle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza di prima quando si trattava di colori vivaci, isolati all’interno di una massa di tonalità scure. Come avrei potuto trarne vantaggio? Gradualmente giunsi a una decisione. Da quando avevo passato la sessantina avevo in mente di riprendere ciascuna delle categorie di soggetti ai quali avevo lavorato nel corso degli anni e di creare una specie di sintesi, una specie di summa summarum, in una o forse due tele, di tutte le mie precedenti impressioni e sensazioni. Ma poi avevo abbandonato l’idea, perché avrebbe richiesto molti viaggi e tanto tempo per rivisitare i vari luoghi della mia vita di pittore uno dopo l’altro, per catturare di nuovo le mie passate emozioni. E ormai viaggiare mi affatica. Perfino brevi gite in automobile, di due o tre giorni, mi mettono a dura prova. Cosa mi avrebbe provocato un viaggio di diversi mesi? E inoltre volevo restare qui, dove sono felice. Mi sono affezionato ai luoghi del mio giardino a primavera e d’estate alle ninfee del mio stagno sull’Epte; danno sapore alla mia vita, giorno dopo giorno. Qui avevo accantonato il progetto. Le mie cataratte me lo fecero riprendere in considerazione. Avevo sempre amato il cielo e l’acqua, il verde, i fiori. Tutti questi elementi potevano essere trovati in grande abbondanza qui nel mio piccolo stagno. Talvolta, di mattina o di sera (ho smesso di lavorare durante le ore di luce piena e di pomeriggio vengo solo a riposarmi) mentre lavoravo ai miei schizzi, mi dissi che sarebbe stato interessante fare una serie di impressioni di insieme in quei momenti del giorno, quando la mia vista sarebbe stata probabilmente più precisa. Attesi che l’idea prendesse forma, che la disposizione e la composizione dei motivi si imprimessero a poco a poco nella mia mente e poi, quando giunse il giorno in cui mi sentì di avere sufficienti assi nella manica per tentare la fortuna con una reale speranza di successo, mi decisi ad agire ed agì. Sono sempre stato un uomo caparbio, una volta presa una decisione. Su due piedi chiamai un muratore, un uomo onesto con una piccola impresa, coscienzioso, che sapeva fare il suo mestiere. Facemmo un progetto molto semplice, per uno studio più grande dell’usuale, lungo venticinque metri, largo quindici. Solide mura, nessuna apertura eccetto una porta. Due terzi del tetto dovevano essere di vetro. Gli operai iniziarono a scavare le fondamenta il primo agosto. Poi vennero la mobilitazione generale e la guerra. Il mio costruttore non aveva più operai. Il materiale da costruzione non poteva più essere portato a destinazione. Ci vollero sei mesi per iniziare a costruire. Non fu finito che nella primavera del 1916. Allora, quando i lavori furono più o meno terminati, mi misi all’opera. Sapevo cosa potevo e volevo fare. In due anni ho completato otto dei dodici pannelli che avevo progettato […]».

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Eravamo arrivati nel nuovo studio. Entrammo e i miei occhi si spalancarono dalla meraviglia. Claude Monet aveva ampliato il suo motivo originale con una nobiltà, una generosità ed un decoro totalmente inattesi. Utilizzando un processo di composizione la cui semplicità è uno dei tratti più felici, aveva dipinto lo stagno con le ninfee dalla prospettiva del viottolo che lo circonda e ogni tela rappresentava ogni punto di osservazione che egli aveva scelto. Erano tutte della stessa altezza – approssimativamente 1,80 m. Le larghezze variavano: alcune erano di 4, altre di 6 o 8 metri. Come ambientazione generale aveva preso più o meno ciò che la natura stessa gli offriva. In alcuni quadri lo specchio d’acqua era incorniciato da tronchi nodosi di salici piangenti, ed in altri, dove la natura non gli dava alcun motivo per limitare i bordi della tela, aveva schivato ogni artificio concentrando l’attenzione dell’osservatore sull’acqua stessa. Nessuno dei quadri era stato eseguito nella luce piena del mezzogiorno. Gli effetti erano quelli delle nebbie dell’aurora o della mezza mattinata, con una luce molto morbida e nitida, oppure del pomeriggio col tramonto, o dell’ultimo raggio di luce, del crepuscolo e della notte. Già questo era sufficiente per permettere di vedere i soggetti in una immaginabile varietà di aspetti. E, per quanto riguarda l’effetto del colore, era letteralmente prodigioso. Su una base chiara o scura, quasi nera, con sfumature di verde, il modo delicato dell’artista di distribuire i colori permetteva ai porpora e ai gialli, agli ametista e ai rosa, al viola e al malva di esprimersi alla perfezione. Poggiando sulle loro larghe e piatte foglie, le ninfee alzavano con discrezione le loro corolle circondate da cupole verdi e il centro della composizione era quasi sempre vuoto, ma in senso molto relativo perché era proprio lì che il pittore aveva concentrato il gioco di luci e di riflessi sulla superficie scintillante dell’acqua calma, dell’acqua increspata o mossa da leggere onde. Là il riflesso del piccolo cumulo di nubi che attraversava il cielo sembrava galleggiare dolcemente, tinto di rosa o del color del fuoco, oppure si potevano veder scorrere brandelli di nebbia che si levava all’alba. L’intera scena luccicava con la brillantezza del sole ormai morente i cui ultimi raggi rifulgevano come flutti d’oro in un cielo grigioperla e turchino.

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Tutto quanto era di un’incredibile sontuosità, ricchezza, intensità di colore e di vita. Per un momento pensai che il vecchio mi avesse preso in giro raccontandomi della perdita della sua vista, ma mi convinsi del contrario quando lo accompagnai nel suo studio dove era solito lavorare ogni giorno e osservai venticinque o trenta opere che aveva scartato, opere che risalivano al periodo in cui, dopo l’inizio della sua infermità, imperterrito, aveva continuato a lavorare. Le note di colore di queste opere erano tremendamente fuori tono e nonostante l’artista fosse ancora presente nel disegno, nel talento per la composizione nell’effetto di insieme, il colorista sembrava essere svanito nel nulla; restava impossibile sondare il mistero del miracolo raggiunto. «Non vi scervellate per questo» Mi disse Monet «Se ho riguadagnato il mio senso del colore nelle grandi tele che vi ho appena mostrato è perché ho adattato i miei metodi di lavoro alla mia vista e perché quasi sempre ho buttato giù i colori a caso, da un lato fidandomi unicamente delle etichette sui tubetti e dall’altro seguendo la forza dell’abitudine, facendo affidamento sul mondo in cui ho sempre steso le tinte sulla mia tavolozza. […] La mia infermità talvolta è rientrata e che, in più di un’occasione, la mia visione dei colori è tornata com’era ed io ho approfittato di questi momenti per fare le necessarie rettifiche».

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Quindi è piuttosto alla nascente cecità che a qualsiasi premeditato dobbiamo le composizioni che Camille Lefèvre ha collocato in un’ambientazione oltremodo adeguata, in una cornice di grande gusto e purezza. Gli spazi di forma ellittica creati dall’architetto del Museo nazionale non sono quelli che Monet aveva concepito in un primo momento. Egli aveva in mente una vasta rotonda nella quale le sue tele sarebbero state collocate alle pareti come un panorama e ci vollero molte lunghe discussioni tra lui e il suo direttore prima che egli accettasse di proseguire con l’idea dell’architetto. Non poté provare la gioia di vedere la sua opera assumere il suo pieno significato, e il suo intero essere suggestivo. Ma almeno morì con la certezza che qualsiasi fosse la sua qualità, la sua opera sarebbe stata mostrata al pubblico nelle migliori condizioni. […]

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Concludiamo con un aneddoto che mi riferì Georges Clemenceau il giorno dell’inaugurazione: «Una volta noi due uscimmo dal Louvre e io dissi a Monet: se avessi il permesso di portarmi a casa un dipinto prenderei “Un funerale a Ornans” di Courbet». «Io no» rispose Monet, «io prenderei “L’imbarco per Citera” di Watteau». Questa semplice frase sintetizza in pieno la carriera di Monet e la sua evoluzione finale. Come Watteau questo realista puro si batteva incessantemente per raggiungere il suo ideale, ed è per questo che c’è tanta magia nella sua arte.

 

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