Monet su Monet: il grande maestro dell’Impressionismo si racconta

Di Laura Corchia

Claude Monet, il più grande degli impressionisti, si racconta in un’intervista raccolta da François Thiébault-Sisson nel 1900, in occasione di una mostra che il pittore tiene presso le Galeries Durand-Ruel.

La voce di Claude è tersa, azzurra verrebbe da dire. Racconta anni difficilissimi, ma lo fa senza la benché minima autocommiserazione. È il tratto distintivo: ego saldo, Monet ha la schiena dritta, sempre. Quando né il padre né gli altri sembrano capirlo, quando non ci sono che miseria e incomprensione, l’occhio appare limpido sulle cose, il tono è fermo e rapido, privo di risentimento. Monet dice di sì a tutto, alla luce, alla natura, al suo inevitabile destino di pittore. Nulla lo può turbare, nemmeno il successo che sta arrivando.

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“Sono parigino di Parigi. Vi nacqui nel 1840, sotto il buon re Luigi Filippo, in un ambiente interamente dedito al commercio, e dove tutti professavano uno sdegnoso disprezzo per le arti. Ma la mia giovinezza l’ho trascorsa a Le Havre, dove mio padre si era stabilito nel 1845 per seguire più da vicino i suoi interessi; e questa giovinezza fu essenzialmente quella di un vagabondo. Ero indisciplinato per natura; mai mi sarei piegato, neppure nella più tenera infanzia, davanti ad alcuna imposizione. Il poco che so lo imparai a casa. La scuola mi è sempre sembrata una prigione e non riuscivo a convincermi che fosse giusto restarci, tantomeno per quattro ore al giorno, quando fuori il sole mi invitava, il mare era calmo ed era una tale gioia stare all’aria aperta, correre sugli scogli o sguazzare nell’acqua”.

Il caricaturista di Le Havre

“Fino a quattordici o quindici anni ho condotto questa vita irregolare ma sana, con grande disperazione del mio povero padre. Nel frattempo avevo appreso quasi per caso i rudimenti dell’aritmetica e un’infarinatura di ortografia. Questi furono i miei studi. Non erano troppo noiosi perché io li alternavo con svaghi. Disegnavo ghirlande ai margini dei miei libri, decoravo la carta azzurra dei miei quaderni con ornamenti fantastici e sopra raffiguravo i volti o i profili dei miei insegnanti in modo irriverente, deformandoli il più possibile.

Presto diventai molto abile in questo gioco. A quindici anni ero rinomato in tutta Le Havre come caricaturista. La mia reputazione era tale che tutti mi cercavano per chiedermi una caricatura. L’abbondanza degli ordini e l’insufficienza dei sussidi derivanti dalla generosità materna, mi spinsero a prendere una decisione molto audace che naturalmente scandalizzò la mia famiglia: cominciai a chiedere soldi per i miei ritratti. A seconda dell’aspetto dei miei clienti, chiedevo dieci o venti franchi a ritratto, e la cosa funzionò a meraviglia. In un mese i miei mecenati raddoppiarono. Potevo chiedere venti franchi senza che gli ordini diminuissero. Se avessi continuato, oggi sarei un miliardario. […]

Eppure c’era un’ombra in tutta questa gloria. Spesso, nella stessa vetrina, sopra le mie produzioni, vedevo delle marine che, al pari di molti miei concittadini, consideravo disgustose. E, sinceramente, ero molto contrariato dall’obbligo di sopportarne il contatto; per questo non smettevo mai di inveire contro l’idiota che, pensando di essere un artista, aveva abbastanza autocompiacimento di firmarle. Questo idiota era Boudin. Per i miei occhi, abituati com’erano alle marine di Gudin, alle colorazioni arbitrarie, alle note false e alle fantastiche composizioni dei pittori in voga, le piccole e sincere composizioni di Boudin, con le sue figurette così vere, le sue barche tutte attrezzate per benino, i suoi cieli e la sua acqua talmente esatti, disegnati o dipinti come si presentavano in natura, tutto ciò non aveva alcunché di artistico, e la loro fedeltà mi colpiva perché per me era più che sospetta. Per questo le sue pitture mi ispiravano un’intensa avversione e, senza neppure conoscere quell’uomo, lo odiavo. Spesso il corniciaio mi diceva: «Dovresti far la conoscenza del signor Boudin. Vedrai, qualsiasi cosa dicano di lui, il suo mestiere lo sa fare. Ha studiato a Parigi, negli studi dell’ École des Beausx-Arts. Ti potrebbe dare qualche buon consiglio». Ed io resistevo per uno stupido orgoglio. Che cosa avrebbe potuto mai insegnarmi un individuo così ridicolo?”

Monet in una foto da ragazzo
Monet in una foto da ragazzo

 

L’incontro con Boudin

“Tuttavia, giunse quel giorno, il giorno fatale, in cui il fato mi portò, mio malgrado, faccia a faccia con Boudin. Era nel retrobottega e, non avendo quindi notato la sua presenza, entrai. Il corniciaio colse al volo l’occasione e senza consultarmi me presentò: «Ecco, signor Boudin, questo è il giovanotto che ha tanto talento per la caricatura» e Boudin, senza esitazioni, venne verso di me, si complimentò con la sua voce gentile e disse: «Li guardo sempre con grande piacere, i tuoi schizzi; sono divertenti, intelligenti e brillanti. Se dotato; lo si vede a colpo d’occhio. Ma spero che tu non ti fermerai qui; è ottimo come inizio, ma presto ne avrai abbastanza delle caricature. Studia, impara a vedere e a disegnare, dipingere, fare paesaggi. Sono così belli, il mare e il cielo, gli animali, la gente e gli alberi, così come la natura li ha fatti, con il loro carattere, il loro vero modo di essere, nella luce, nell’aria, proprio così come sono».

Ma le esortazioni di Boudin non ebbero presa. Quest’uomo, dopo tutto, mi piaceva. Era leale, sincero; io lo sentivo ma la sua pittura non mi andava giù, e quando mi invitava ad andare da lui a dipingere in campagna, trovavo sempre un pretesto per declinare l’invito educatamente. Venne l’estate e avevo a disposizione tutto il tempo che volevo, non potevo quindi trovare nessuna scusa valida., e stanco di resistere alla fine cedetti. Boudin, con instancabile gentilezza, intraprese la sua opera di insegnamento. I miei occhi finalmente si aprirono ed io compresi veramente la natura; imparai al tempo stesso ad amarla. La analizzai con una matita nelle sue forme, la studiai nelle sue colorazioni. Sei mesi dopo, malgrado le preghiere di mia madre che aveva iniziato a preoccuparsi seriamente per le persone che frequentavo, e mi pensava perduto in compagnia di un uomo di così cattiva reputazione come Boudin, annunciai a mio padre che desideravo diventare un pittore, e che mi sarei stabilito a Parigi per studiare.

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«Non avrai un centesimo»; «Ce la farò lo stesso». Infatti riuscì a farcela lo stesso. Da tempo avevo messo da parte il mio piccolo patrimonio. Le mie caricature me lo avevano procurato. Spesso ero riuscito a fare sette o otto caricature in un solo giorno. Con venti franchi per ogni ritratto avevo fatto grandi incassi e fin dall’inizio avevo preso l’abitudine di consegnare i miei guadagni ad una delle mie zie, tenendo per me delle somme trascurabili per le piccole spese. A sedici anni ci si sente ricchi con duemila franchi. Da diversi appassionati di pittura che proteggevano Boudin ed aveva rapporti con Monginot, Troyon, Armand Gautier, ottenni alcune lettere di presentazione e partii immediatamente per Parigi. Ci volle un po’ di tempo, all’inizio, per decidere la mia linea d’azione. Mi rivolsi agli artisti cui erano indirizzate le mie lettere. Ricevetti da loro eccellenti consigli, ma ebbi anche consigli pessimi. Troyon voleva che io entrassi nello studio di Couture. È inutile dirvi quanto deciso fu il mio rifiuto. Ammetto anche che, almeno per un certo periodo di tempo, la mia stima e la mia ammirazione per Troyon si raffreddarono. Lo vidi sempre meno e, infine, mi misi in contatto soltanto con gli artisti in cerca di allievi. In questo frangente conobbi Pisarro che in quel periodo non pensava ancora ad atteggiarsi a rivoluzionario e che lavorava tranquillamente, nello stile di Corot. L’esempio era eccellente e anche io lo seguii. Ma per tutta la durata del mio soggiorno a Parigi, quattro anni, durante i quali mi recai di frequente in visita a Le Havre, il mio agire era governato dai consigli di Boudin, sebbene avessi la tendenza a vedere la natura in senso più vasto”.

Omschrijving
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Colori d’Africa

Raggiunsi il mio ventesimo anno di età. Stava per scoccare l’ora del servizio militare. La guardavo approssimarsi senza timore, e così faceva anche la mia famiglia. Non avevano perdonato la mia fuga, mi avevano lasciato vivere come volevano per quattro anni solo perché pensavano di riacciuffarmi quando sarei dovuto partire per il servizio militare. Pensavano che dopo aver corso la cavallina mi sarei calmato abbastanza da far ritorno a casa di buon grado, per dedicarmi finalmente al commercio. Se avessi rifiutato, mi avrebbero tagliato i viveri e se avessi scelto la strada sbagliata, mi avrebbero abbandonato al mio destino. Si sbagliavano. I sette anni di servizio che spaventavano tanti giovani, per me furono straordinari. Un mio amico che era nel reggimento dei Cacciatori d’Africa e che adorava la vita militare mi aveva trasmesso il suo entusiasmo e il suo amore per l’avventura. Niente mi attraeva quanto le infinite cavalcate sotto il sole bruciante, le razzie, lo scoppiettio della polvere da sparo, i colpi di spada, le notti nel deserto sotto una tenda e all’ultimatum di mio padre replicai con un superbo gesto di indifferenza. Grazie alle mie insistenze riuscii ad ottenere di essere distaccato presso un reggimento di stanza in Africa e mi misi in viaggio.

In Algeri passai due anni veramente affascinanti. Scoprivo incessantemente qualcosa di nuovo; nel tempo libero cercavo di rappresentare ciò che vedevo. Non potete immaginare in che misura arricchii la mia conoscenza e quanto ne beneficiò la mia visione. Non me ne resi conto, all’inizio. Le impressioni della luce e del colore che ebbi là le potei sistematizzare soltanto in seguito, ma contenevano già il germe delle mie future ricerche.

Mi ammalai, e gravemente, allo scadere del secondo anno. Mi mandarono a casa per rimettermi. Passai i sei mesi della convalescenza a disegnare e dipingere con raddoppiata energia. Vedendo la mia insistenza, consumato com’ero dalla febbre, mio padre si convinse che nessuna volontà avrebbe potuto fermarmi, o che niente avrebbe potuto mettere alla prova una vocazione così determinata, e tanto per la stanchezza quanto per la paura di perdermi (infatti il dottore lo aveva preparato anche a questo, casomai fossi tornato in Africa) verso la fine della mia licenza, si decise a pagare un sostituto. «Ma beninteso» mi disse «questa volta ti metti a lavorare sul serio. Voglio vederti in un’atelier sotto la direzione di un maestro di chiara fama. Se riprenderai a fare di testa tua, ti taglierò i viveri senza tanti complimenti. Affare fatto?» Questo accordo non mi stava poi tanto bene, ma sentivo che era necessario non opporsi a mio padre, se per una volta egli si intrometteva nei miei piani. Io accettai. Ci accordammo che a Parigi avrei dovuto avere un tutore artistico nella persona di Toulmouche che aveva appena sposato una mia cugina e che mi avrebbe guidato e avrebbe regolarmente fornito rapporti sul mio operato.

Un bel giorno arrivai da Toulmouche con una risma di studi che, mi disse, gli piacquero molto. «Tu hai un futuro» disse, «ma devi incanalare meglio i tuoi sforzi. Entrerai nello studio di Gleyre; è lui il maestro saggio e posato che fa al caso tuo». E, sbuffando, poggiai il mio cavalletto nello studio, affollato da allievi sui quali presiedeva questo celebrato artista. La prima settimana lavorai molto coscienziosamente e feci, applicandomi seriamente e impegnando la mente, uno studio di nudo dal vero che Gleyre corresse il lunedì.

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La settimana successiva, quando egli venne da me, si mise a sedere; solidamente piantato sulla mia sedia, scrutò attentamente il frutto del mio lavoro, Poi, mi pare ancora di vederlo, si voltò e inclinando la sua pesante testa su un lato, con aria soddisfatta, mi disse: «Niente male! Per niente male questa cosa qui, ma rende troppo fedelmente il modello: davanti a te c’è un uomo basso e tarchiato, tu lo hai reso basso e tarchiato, ha dei piedi enormi, tu li hai fatti così come sono. Tutto ciò è molto brutto, devi ricordarti, giovanotto, che quando si esegue una figura si dovrebbe sempre pensare agli antichi. La natura, caro mio, va bene come elemento di studio, ma non offre alcun interesse. Lo stile, vedi, lo stile è tutto».

Monet in vacanza a Venezia
Monet in vacanza a Venezia

 

Jongkind, un maestro

Eccome, se avevo visto. Verità, vita, natura, tutto ciò che mi provocava emozioni, tutto quanto ai miei occhi costituiva la vera essenza, l’unica raison d’être dell’arte neppure esisteva per quest’uomo. Non intendevo più rimanere con lui. Pensavo di non essere nato per iniziare di nuovo, nella sua scia, le illusions perdues e altre barbe simili. Quindi perché persistere? Ciononostante attesi diverse settimane. Per non esasperare la mia famiglia continuai a frequentare regolarmente lo studio, ma rimanevo appena il tempo necessario a buttar giù uno schizzo del modello e per essere presente alle ispezioni; poi me la filavo. Per giunta, allo studio avevo trovato compagni a me congeniali, tipi fuori dal comune. Erano Renoir e Sisley che in seguito non avrei mai più perso di vista, e Bazille che divenne immediatamente mio compagno inseparabile e che sarebbe diventato famoso se avesse vissuto abbastanza. Nessuno di loro mostrò né più né meno di me, il minimo di entusiasmo per un tipo di insegnamento in netta contrapposizione alla loro logica e al loro temperamento. Immediatamente li incitai a ribellarsi. Appena deciso l’esodo ce ne andammo. Bazille e io prendemmo uno studio insieme. Mi dimenticavo di dire che poco tempo prima avevo fatto la conoscenza di Jongkind. Durante la mia licenza per malattia, un bel pomeriggio, stavo lavorando nei dintorni di Le Havre, in una fattoria. Una mucca pascolava nel prato. Mi venne la bella idea di fare un disegno della brava bestia. Ma la brava bestia era piuttosto capricciosa e cambiava posizione di continuo. Inseguendola col cavalletto in una mano, la sedia nell’altra, cercavo alla meno peggio di riguadagnare il punto di osservazione. Le mie manovre dovevano essere molto divertenti perché sentii dietro di me una gran risata. Mi voltai e vidi un colosso ansimante. Ma il colosso aveva buone intenzioni. «Aspetta un minuto» disse, «ti aiuto io!»  Il colosso si avvicina alla mucca a grandi passi e, afferrandola per le corna, cerca di metterla in posa. La mucca, non abituata a questo trattamento, se la prende a male. Ora toccava a me ridere. Il colosso, sconfitto, lascia perdere la bestia e viene a parlare con me. Era un inglese in visita, molto appassionato di pittura e anche molto ben informato su quanto accadeva nel nostro paese:

«Quindi voi fate paesaggi?» Disse.

«Be’, si».

«Conoscete Jongkind?»

«No, ma ho visto le sue opere»

«E cosa ne pensate?»

«Esprimono molta forza»

«Avete ragione. Sapete che è qui?»

«Ma che mi dite?»

«Abita a Honfleur. Vorreste conoscerlo?»

«Come no! Ma allora Voi siete un suo amico?»

«Non l’ho mai visto, ma appena seppi del suo arrivo, mandai il mio biglietto da visita. È un modo come un altro per stabilire un contatto. Lo inviterò a pranzo insieme a Voi».

All’aria aperta, in un giardino di campagna, sotto gli alberi, con della buona cucina casalinga, il bicchiere sempre colmo, seduto tra due ammiratori la cui sincerità era al di sopra di ogni sospetto, Jongkind non stava in sé dalla gioia. L’inattesa avventura lo divertiva, e poi non era abituato ad essere tanto al centro dell’attenzione. La sua pittura era troppo nuova e di una tendenza di gran lunga troppo artistica per essere apprezzata già allora, nel 1862, per quello che si meritava. Non esisteva persona più modesta. Era un uomo semplice, di buon cuore, che storpiava il francese in modo atroce, e molto timido. Quel giorno fu molto loquace. Chiese di vedere i miei schizzi, mi invitò a lavorare con lui. Da allora in poi fu il mio vero maestro ed è a lui che debbo l’educazione finale del mio occhio.

Monet fotografato vicino alle sue Ninfee
Monet fotografato vicino alle sue Ninfee

 

En plen air

A Parigi lo rividi spesso. La mia pittura, non c’è bisogno di dirlo, ne guadagnò. Fece rapidi progressi. Tre anni dopo partecipai per la prima volta ad un’esposizione. Le due marine che esposi furono accolte con grande approvazione e furono molto ben collocate. Fu un successo. Ebbi la stessa unanimità di consensi nel 1866 per un grande ritratto che avete visto per lungo tempo da Durand-Ruel, Camille in abito verde. I giornali portarono il mio nome a Le Havre. Finalmente riconquistai la stima della mia famiglia. E con la loro stima ripresero anche i sostentamenti. […]

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In seguito litigammo di nuovo e io gettai me stesso, anima e corpo, nella pittura en plen air. Fu un’innovazione pericolosa. Fino ad allora nessuno mai vi si era cimentato, neppure Manet, che l’avrebbe affrontata solo più tardi, dopo di me. La sua pittura era ancora molto classica e non ho mai dimenticato il disprezzo che egli mostrò per le mie prime opere. Fu nel 1867: il mio stile si era venuto formando da sé, ma in fin dei conti non era rivoluzionario. Ero ancora ben lungi dall’adottare il principio della suddivisione dei colori per il quale molti, in seguito, si sarebbero scagliati contro di me. Comunque stavo iniziando a farmici la mano, con gli esperimenti sugli effetti di luce e colore che furono un vero e proprio colpo per le usanze di allora. La giuria che inizialmente mi aveva accolto così bene, si rivolse contro di me e fui ostracizzato per ignominia quando presentai al Salon questa nuova pittura. Trovai lo stesso un modo di esporre, ma altrove. Mosso a compassione dalle mie suppliche, un mercante che aveva il suo negozio nella rue Auber acconsentì a esporre nella sua vetrina una marina rifiutata dal Palazzo dell’Industria. Ci fu un generale grido di allarme. Una sera mi ero fermato per strada, in mezzo a un gruppo di persone, per sentire cosa stavano dicendo di me quando vidi arrivare Manet con due o tre amici. Si fermarono a guardare e Manet, scrollando le spalle esclamò sdegnosamente: «Ma guardate questo giovanotto che si vuol cimentare nella pittura en plen air! Come se gli antichi» avessero mai pensato a cose simili!»

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Manet, odio e amore

Manet aveva un vecchio rancore contro di me. Al Salon del 1866, all’inaugurazione, al momento stesso in cui fece il suo ingresso, fu accolto da acclamazioni quali: «Eccellente, ragazzo mio, la tua pittura!» e poi si sprecarono strette di mano, lodi e felicitazioni. Manet, come potete ben credere, era esultante, ma quale fu la sua sorpresa quando realizzò che la tela per la quale si erano espresse tante congratulazioni era la mia! Era Camille in abito verde. La cosa più triste di tutto ciò fu che, andatosene in fretta, si imbatté in un gruppo di pittori, tra cui Bazille ed io. «Come va?» disse uno della folla. «Ah, caro mio. Sono fuori di me, sono su tutte le furie. Mi hanno fatto tanti complimenti, ma per l’appunto per un dipinto che non è opera mia. Verrebbe da pensare ad una presa in giro».

Quando Astruc, il giorno dopo, gli disse che aveva dato sfogo al suo malumore proprio davanti all’autore del dipinto attribuitogli per errore, e quando egli propose di presentarmi a lui, Manet rifiutò con un gesto eloquente. Ce l’aveva con me a causa dello scherzo che gli avevo involontariamente giocato. L’univa volta che si erano congratulati con lui per un capolavoro, il capolavoro era di un altro. Che cosa atroce doveva essere stata per uno suscettibile come lui.

Lo rividi soltanto nel 1869. Ma allora divenimmo immediatamente ottimi amici. A partire dalla prima volta che ci incontrammo, mi invitò ogni sera ad accompagnarlo in un caffè dei Batignolles dove lui e i suoi amici si incontravano dopo il lavoro per conversare. Fu lì che incontrai Fantin Latour e Cézanne, Degas che arrivò poco dopo dall’Italia, il critico d’arte Duranty, Émile Zola, che stava proprio allora facendo il suo debutto nella letteratura, e molti altri. Io, da parte mia, vi condussi Bizet, Bazille e Renoir. Niente poteva essere più interessante di queste causeries, il loro perpetuo scontro di opinioni. Affinavano il nostro acume, ci incoraggiavano a fare una ricerca sincera e disinteressata, ci fornivano di una carica di entusiasmo che per settimane e settimane ci teneva su, fino a quando un’idea avesse trovato una sua forma compiuta. Da là uscivamo sempre con lo spirito più elevato, la volontà più ferma ed i nostri pensieri più chiari. Ci fu la dichiarazione di Guerra alla Germania, mi ero appena sposato. Mi trasferii in Inghilterra. A Londra trovai Bonvin e Pisarro. Mi trovavo in grandi difficoltà. L’Inghilterra non si interessava alla nostra pittura. Era dura. Per caso, mi imbattei in Daubigny che un tempo aveva manifestato un certo interesse per me. allora egli dipingeva delle scene sul Tamigi che piacevano molto agli inglesi. si commosse sentendo dei miei guai. «so io quel che ti serve» disse «porterò un mercante da te». E così, il giorno successivo feci la conoscenza del signor Durand-Ruel. E per noi il signor Durand-Ruel fu la salvezza. Per quindici anni e più i miei quadri e quelli di Renoir, Sisley e Pisarro non passarono per altre mani che le sue. Arrivò il giorno in cui egli fu costretto a diminuire i suoi ordini, fare acquisti meno frequenti. Pensammo che la rovina fosse ormai alle porte: fu invece l’avvento del successo. Offerte a Petit, ai Boussod, le nostre opere trovarono in loro degli acquirenti. E il pubblico iniziò a trovarle meno brutte. Da Durand-Ruel i collezionisti non ne avrebbero acquistate nemmeno una. Ma vedendole nelle mani di altri mercanti crebbe la loro fiducia. Cominciarono a comprare, e così dettero il via. Oggi quasi tutti ci apprezzano in qualche misura”.

 

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