Caravaggio: ‘luci e ombre’ sulla tecnica

Di Laura Corchia

Osservando alcune opere dipinte da Caravaggio rimaniamo ammirati e stupefatti non solo dalla composizione, dal realismo, dall’impaginato e dal particolare effetto di coinvolgimento dello spettatore all’interno delle drammatiche rappresentazioni che si consumano sotto i suoi occhi, ma soprattutto dalla luce, assoluta protagonista della scena.

Per poter comprendere la portata rivoluzionaria della sua arte, si rivela utile l’analisi della tecnica pittorica che egli adotta.

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Per poter preparare le tele, solitamente si deve rispettare una serie di passaggi fondamentali. Il supporto deve essere ben teso e ben assorbente, in modo da accogliere il film pittorico nel suo insieme. La tela migliore è quella in lino scelta in base alla grana, determinata dallo spessore dei fili. Sulla tela veniva passata una mano di colla animale e la si lasciava asciugare. Il passo successivo era l’imprimitura, una preparazione formata da gesso, colla e olio. Generalmente le imprimiture erano di colore bianco o comunque chiaro per far brillare meglio i colori. Ma nel caso di Caravaggio la tela era preparata con una mestica successiva di colore bruno. Questa imprimitura, già conosciuta da Cennino Cennini, era molto diffusa nel Cinquecento, ma in Caravaggio l’uso diviene sistematico, proprio perché esalta di più i colori chiari, che sul fondo scuro acquistano una maggiore luminosità. Ma col passare del tempo l’imprimitura nera tende ad aggredire i colori della pittura, ed è per questo che in alcuni casi notiamo sbiadimenti o scurimenti di alcune parti dei dipinti del Merisi.

Il fondo scuro della mestica impediva però di disegnare su di essa con il carboncino, come erano soliti fare i pittori per dare un’impostazione generale del loro lavoro. Le radiografie hanno dimostrato che Caravaggio incideva invece la superficie con una punta metallica o con lo stelo del pennello per disegnare in maniera generica le figure. Egli per studiare i suoi modelli probabilmente si avvalse anche di strumenti ottici.

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Giovan Pietro Bellori nelle Vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni scrive a proposito del modo di dipingere di Caravaggio: “Facevasi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi del nero per dar rilievo alli corpi. E s’inoltrò egli tanto in questo suo modo di operare, che non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna di una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza e veemenza di chiaro e di oscuro”. 

Queste parole confermano l’ipotesi Roberta Lapucci, direttrice del Dipartimento di Restauro dell’Università americana Saci, a Firenze, e docente all’Università Statale della stessa città. La studiosa ha passato in rassegna moltissime opere del pittore e avanzato l’ipotesi di un impiego della camera oscura. Nei quadri di Caravaggio, infatti, c’è quasi sempre una ricerca di angoli di luce, di particolari che risplendono in un contesto più scuro. Da alcune prime analisi si è trovata una diffusa presenza, in molti quadri e in più punti degli stessi, di sostanze fluorescenti, e in particolare si tratta di sali di mercurio. Di fatto si trattava di primi esperimenti di proiezione: la luce naturale illumina una figura esterna alla camera e trasmette una sua immagine attraverso un foro dell’involucro, passando all’interno dove è raccolta da lenti e riproiettata su una parete interna.

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