Lo studiolo: piacere e diletto del Principe

di Laura Corchia

Vasta ed eterogenea è la documentazione sia letteraria che figurativa sugli studioli, luoghi deputati alla riflessione e alla meditazione che subiscono, fra quattrocento e cinquecento, una trasformazione di usi e significato: da spazi introspettivi della mente, a luoghi riservati alla raccolta di strumenti di studio e di piccoli oggetti d’arte, a musei privati, gabinetti antiquari destinati all’esposizione e al godimento di oggetti preziosi.

Indicato dalle fonti con i termini camerino, studietto, scrittoio, tesoretto, antiquario, è identificabile a volte in un solo mobile-contenitore per piccoli e preziosi pezzi e con gli oggetti esposti sulle pareti e nelle scansie.

Sabba da Castiglione, nei Ricordi, dedica un capitolo a tali ambienti descrivendo minuziosamente il loro contenuto: sculture antiche e moderne, gemme, medaglie, historie e ritratti. La quantità degli oggetti enumerati sembra indicare la loro disposizione in più ambienti. Inoltre sembra già che in quest’epoca il termine studio avesse già acquistato il sinonimo di collezione.

L’Armenini, ne I veri precetti della pittura, ci riferisce che la decorazione più congeniale a questi ambienti debba essere quella raffigurante grottesche e paesaggi naturali in una contrapposizione fra la natura creatrice e la creatività umana rappresentata dalle opere d’arte esposte.

Lo Scamozzi, nel descrivere gli studioli di Venezia, riferisce che la migliore ubicazione è negli spazi più appartati dell’abitazione signorile.

Caratteristica degli studioli di corte è la presenza di un programma iconografico in stretto rapporto con la figura del committente e con la fisionomia della collezione.

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La decorazione dello studiolo di Lionello e Borso d’Este, nota da una descrizione di Sabatino degli Arienti, era finalizzata a celebrare il buon governo e i successi diplomatici del committente e si basava sulla rappresentazione delle nove muse. A questo programma iconografico, chiarito da una lettera di Guarino da Verona a Lionello,  sono stati collegati otto dipinti raffiguranti queste divinità ed eseguiti dal Tura e da altri artisti. La decorazione nel suo complesso intendeva alludere alle virtù intellettuali  e alla saggezza della gestione politica del marchese.

Si realizza qui uno dei primi tentativi di costruire mediante dipinti strutturati con la medesima costruzione prospettica una unità spaziale.

Lo studiolo di Pier Maria Rossi a Torrechiara viene celebrato nella cantilena di Gerardo Rustici datata 1463.

Il programma iconografico dello studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino ci viene descritto da Vespasiano da Bisticci e da Bernardino Baldi. In particolare, Vespasiano da Bisticci, nelle sue vite di uomini illustri del secolo XV, riferisce che Federico chiama dalle Fiandre Giusto di Gand e Pedro Berruguede perché gli dipingessero 28 ritratti di filosofi, poeti e padri della chiesa.

Bernardino Baldi, nella descrizione del Palazzo Ducale di Urbino, ci informa che lo studiolo era rivestito da pannelli di legno intarsiati.

La decorazione, dunque, accoppia due tecniche diverse, pittura e tarsia, e alludeva all’unione e all’equilibrio tra vita attiva e vita contemplativa che si realizza nella persona del duca, dedito agli studi umanistici e abile condottiero.

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I “camerini di alabastro” di Alfonso d’Este si componevano di 28 rilievi marmorei  con le imprese degli dei eseguiti da Antonio Lombardo, di dipinti di soggetto profano e di due baccanali di Tiziano vivacemente descritti dal Vasari. Egli, nelle vite, ci riferisce che l’opera fu iniziata da Giovanni Bellini e fu portata a termine da Tiziano che eseguì un fiume di vino vermiglio con suonatori e cantori e figure nude, tra cui una donna distesa in primo piano. Nell’altro riquadro Tiziano eseguì putti ed amorini in diverse attitudini che piacquero molto ad Alfonso.

L’iconografia dello studiolo del Card. Alessandro Farnese a Caprarola ci è nota da una lettera di Annibal Caro datata 1565. Egli riferisce infatti che il tema deve incentrarsi sulla esaltazione della vita solitaria e deve riguardare alcuni ambienti rivolti verso il giardino.

Questo tema viene contrapposto alla vita attiva illustrata in altri ambienti rivolti verso la città.

Lo scrittoio di Alessandro Acciaioli viene descritto da Bocchi, ne Le bellezze della città di Firenze. Egli riferisce che lo scrittoio era adorno di statue bellissime, alcune opera del Giambologna.

Particolare della volta dello Studiolo di Francesco I de' Medici
Particolare della volta dello Studiolo di Francesco I de’ Medici

Espressione concreta degli interessi esoterici del committente è lo studiolo di Francesco I dè Medici, in Palazzo Vecchio. La decorazione, concordata fra il principe, l’iconografo Vincenzo Borghini e l’equipe del Vasari e descritta in una lettera, si basava sulla partizione dei quattro elementi naturali (terra, acqua, aria e fuoco). La raccolta, di taglio enciclopedico, era conservata in armadi le cui superfici riproducevano i singoli elementi esemplificati materialmente dagli oggetti conservati all’interno.

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Lo studiolo di Cesare Gonzaga a Mantova, descrittoci dal Vasari nelle vite, era ricco di statue classiche ed era stato dipinto da Fermo Guisoni.

Il Tasso ci offre la descrizione dello studio del Malpiglio. Esso, situato nella parte più alta della casa, conteneva una gran quantità di libri, quadri, carte geografiche, mappamondi, pietre, cristalli e strumenti musicali e astronomici .

Le raccolte di Ludovico Beccadelli a Bologna, del cardinale Rodolfo Pio di Carpi nel palazzo del Campo di Marte a Roma e di Tommaso Obizzi a Padova avevano anch’esse taglio enciclopedico ed erano disposte in più stanze divise per generi.

Il Bellori, nelle vite dè pittori, scultori e architetti romani, descrive il camerino del Cardinal Del Monte a Roma affrescato dal Caravaggio e adibito a laboratorio sperimentale.

Alla fine del cinquecento subentra però il desiderio di esporre le proprie raccolte in uno spazio più vasto e fruibile da un pubblico più ampio.

Il tramonto di questa sorta di collezionismo criptico si può leggere sia nella satira di Anton Francesco Doni, sia nelle considerazioni al Tasso di Galileo. Galileo paragona il Tasso ad uno “ studietto di qualche ometto curioso” e l’Ariosto ad un “guardaroba, una tribuna, una galleria regia”.

 

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