“Non dipingo quello che vedo, ma quello che provo”
Edward Hopper
La luce. Luce filtrata dalla mente dell’artista. Luce che costruisce gli oggetti e dà corpo a sensazioni ed emozioni. Tavole calde, stazioni di servizio, camere d’albergo, cinema, uffici che, nella pittura di Hopper, divengono silenziosi teatri della commedia umana; luoghi sospesi in uno spazio e in un tempo indefinito che è quello scandito dalle sensazioni interiori. Il suo è un realismo evidente. Nei suoi quadri non c’è posto per grattacieli, automobili, fabbriche, ma per una tagliente solitudine che trapela da città disabitate, da cinema e caffè che sembrano sull’ora di chiudere, dalle finestre chiuse degli appartamenti, dai capi chini su tazze di caffè, da mani nervose che impugnano sigarette.
I quadri di Hopper sono abitati da persone tristi e silenziose, che indugiano nell’immobilità del tempo. Emerge un sentimento di solitudine, di non comunicabilità. Donne seminude davanti ad una finestra o intente a leggere un libro, donne stese su di un letto o sedute ad un caffè, da sole o con avventori occasionali, stazioni di servizio, architetture urbane: ritratti della desolazione della vita, voci di disperazione che emergono da una totale mancanza di rumore.
Scriveva Baigell in Arte Americana 1930-70: “Edward Hopper […] ritrasse coloro che sembravano sopraffatti dalla società moderna, che non potevano rapportarsi psicologicamente agli altri e che, con gli atteggiamenti del corpo e i tratti facciali, indicavano di non avere mai avuto una posizione di autorità. Dipinse gli incapaci, gli isolati e gli alienati dalla società. Gente che viveva sola anche se gli altri erano presenti, incapace o non interessata a creare contatti. […] Le sue figure sono imprigionate nel posto che occupano perché diventano parte generale del quadro e dei diversi movimenti direzionali di forme e colori”.
Edward Hopper fa parte di una stretta cerchia di artisti che non prende parte all’astrattismo propugnato dalle Avanguardie. Egli sceglie la tradizionale composizione figurativa e delinea le sue scene con colori brillanti e un disegno iperrealistico.
Nato nel 1882 a Nyack, un paese tra il fiume Hudson e New York City, Edward dimostrò subito un forte interesse per il disegno. Frequentò la New York School of Art e subito dopo partì alla volta di Parigi.
Al pari dei personaggi che popolano i suoi dipinti deserti, Hopper svolse una vita tranquilla e isolata, tutta concentrata nel suo studio a Washington Square, dove morì il 15 maggio 1967 all’età di 85 anni.
Scriveva Nietzsche che l’arte nasce dall’unione di due elementi: un grande realismo e una grande irrealtà. Edward Hopper li possiede entrambi, e nel grado più alto.
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