Cellini e la fusione del Perseo: forchette e pentole per realizzare l’opera

Di Sara Venturiero

La storia del celebre Perseo con la testa di Medusa, posta nella Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria, ha qualcosa di straordinario e dimostra quanto gli artisti siano stati capaci di opere grandiose pur non avendo i mezzi odieni, solo per amor dell’arte.

 

Di norma, nell’antichità, le statue in bronzo venivano realizzate assemblando i diversi pezzi dell’opera fusi separatamente, per poi saldare il tutto e livellare i bordi tramite limatura. Con l’incremento di richiesta delle statue in marmo, anche dalle dimensioni colossali, diminuirono quelle in bronzo, la cui realizzazione era piuttosto lunga, complessa e abbastanza pericolosa; questo metallo in lega di rame e stagno, venne, infatti, utilizzato per piccole opere, come campane, oggettistica quotidiana, vasellame domestico e poco altro.

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L’uso della fusione di un oggetto in un unico blocco, portò gli artisti a sperimentare tale tecnica anche con statue di varie dimensioni e dalle posizioni complesse. Il Perseo è l’esempio più celebre di questi esperimenti, costituita da soli tre pezzi: la testa di Medusa, il corpo dell’eroe e il corpo del mostro sotto i suoi piedi. Il Cellini stesso, ci spiega, nella sua biografia, come la realizzazione lo abbia messo a dura prova per un concatenarsi di problematiche pratiche durante la fusione. Prima le febbri dell’artista (causate dall’esalazione dei metalli), poi i fuochi della fornace quasi spenti a causa di un temporale, infine l’insufficienza di stagno della lega di fusione.

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Quest’ultimo problema, portò l’artista a dover rimediare a tale mancanza con un’idea astuta, ovvero impiegò tutte le stoviglie della bottega ed anche alcune delle cucine di Palazzo Vecchio, completando così la colatura.

 

Il risultato di tante peripezie fu una fusione quasi perfetta, tanto da stupire lo stesso Cellini; solo alcune parti, infatti, vennero rifatte (precisamente il piede destro e parte dello stinco) ed altre solo da sistemare e definire. La statua, iniziata nel 1545, venne esposta in Piazza della Signoria nel 1554, dopo 9 anni di tentativi e migliorie.

Ora, trovandosi davanti al Perseo, verrebbe da pensare a quanti sforzi ci siano stati dietro la sua realizzazione e, forse, ci verrà un pò da sorridere pensando che parte di essa sia frutto anche “dell’impegno” delle stoviglie del Cellini.

Ecco il passo tratto dalla sua biografia in cui descrive la fusione della statua:  “Or veduto di avere risuscitato un morto contro al credere di tutti quegli ignoranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avedevo se io avevo più febbre o più paura di morte. In un tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve proprio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ognuno s’era sbigottito, e io più degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ‘I coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che ‘l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che ‘I metallo non correva con quella prestezza che ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega per virtù di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugiento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi a i mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace: di modo che, veduto ognuno che ‘I mio bronzo s’era benissimo fatto liquido e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: “Oh Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo!”, di modo che in un tratto e s’empiè la mia forma: per la qual cosa io m’inginochiai e con tutto ‘I cuore ne ringraziai Iddio; di poi mi volsi a un piatto d’insalata, che era quivi in sur un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n’andai nel letto sano e lieto perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi auto un male al mondo, così dolcemente mi riposavo. Quella mia buona serva, senza che io le dicessi nulla, mi aveva provisto d’un grasso capponcello: di modo che, quando io mi levai del letto, che era vicino all’ora del desinare, la mi si fece incontro lietamente, dicendo: “Oh, è questo uomo quello che si sentiva morire? Io credo che quelle pugnia e calci che voi davi a noi stanotte passata, quando voi eri cosi infuriato, che con quel diabolico furore che voi mostravi d’avere, quella vostra tanto misurata febbre, forse spaventata che voi non dessi ancora a lei, si cacciò a fuggire”. E cosi tutta la mia povera famigliuola, rimossa da tanto spavento e da tante smisurate fatiche, in un tratto si mandò a ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagno, tante stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, che mai non mi ricordo in tempo di mia vita né desinare con maggior letizia né con migliore appetito. Dopo ‘I desinare mi vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i quali lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che era occorso, e dicevano che avevano imparato e veduto fare cose, le quali era dagli altri maestri tenute inpossibili. Ancora io, alquanto baldanzoso, parendomi d’essere un poco saccente, me ne gloriavo; e messomi mano alla mia borsa, tutti pagai e contentai. […]

 

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