Il Rinascimento: le opere antiche tra collezionismo e restauro

Di Laura Corchia

Mentre nel Medioevo i reperti classici erano apprezzati come pezzi da reimpiego, nel Rinascimento si verificò una più attenta ammirazione dal punto di vista artistico e, di conseguenza, nasce il fenomeno del collezionismo.

Conseguenza immediata della nascita delle collezioni papali e principesche fu la necessità di conferire il miglior aspetto possibile alle opere e di mantenerle in buono stato nel tempo.

Per la prima volta, nel Rinascimento, si mostrò la volontà di collezionare e la volontà di restaurare le opere antiche a seguito del riconoscimento di un loro valore intrinseco di tipo artistico. Nacque il restauro inteso in senso moderno e, di conseguenza, cominciarono ad affacciarsi i primi interrogativi, primo fra tutti: di fronte a sculture frammentarie, è giusto reintegrare? La risposta unanime fu quella di completarle, ritenendo impossibile poter fruire di una scultura in condizioni non perfettamente integre.

  • La prima fase del restauro consisteva nell’identificare il soggetto rappresentato. I restauratori erano coadiuvati dai letterati, che avevano studiato i testi classici.
  • La seconda fase prevedeva il reintegro delle parti mancanti. Questa operazione poteva riguardare piccole parti (punta del naso, dita della mano) oppure poteva richiedere delle procedure più complesse, tutte giocate sull’interpretazione che l’artista dava del soggetto. Inoltre, spesso si partiva da frammenti e si creava un soggetto ex-novo.
  • La terza fase era quella dell’occultamento: l’integrazione non doveva essere evidente e la statua doveva sembrare completa. Nacque per questo la pratica dellapatinatura, frutto di ricette e di segreti di bottega.
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Siamo così di fronte a un altro concetto fondamentale del restauro: quello dell’autenticità.

 

Pochissime opere sono giunte fino a noi così come sono state trovate: una straordinaria eccezione è quella del Torso del Belvedere (che influenzò, tra l’altro, il famoso “contrapposto michelangiolesco”). Questa scultura era sentita di una tale qualità che nessuno scultore si sentiva mai all’altezza di completarla e perfino Michelangelo espresse il suo diniego.

Torso_Belvedere_01

 

Uno dei casi più celebri di restauro è rappresentato da quello del Laocoonte, gruppo risalente al tardo ellenismo e rinvenuto casualmente a Roma nel 1506. Nacque allora un dibattito fra gli artisti del tempo su come eseguire il braccio mancante: dapprima fu fatto in cera, poi in terracotta e, infine, nel Settecento fu fatto in marmo da Agostino Cornacchini. Nonostante le fonti classiche suggerissero posizione flessa del braccio, si decise di protenderlo verso l’alto. Questo derivava da un criterio rinascimentale della costruzione piramidale del gruppo e non del movimento rotatorio.

 

Nel 1957, si giunse a un de-restauro e ad un conseguente ri-restauro: fu eliminato il braccio rifatto e si inserì il frammento originale che nel frattempo era stato scoperto daLudwig Pollack nel 1906.

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Nel 1553, un Apollo in riposo fu completato da uno scultore che, sull’esempio del Laooconte, realizzò il braccio teso in alto. L’interpretazione si rivelò errata, dal momento che l’iconografia corretta è con il braccio in basso.

 

Il Ganimede conservato al Bargello è stato restaurato da Benvenuto Cellini che, nella sua autobiografia, afferma una sorta di dovere nei confronti dell’artefice dell’opera.

 

Connessa al collezionismo è l’esigenza di allestire museograficamente i pezzi. Nasce in questo periodo la “Galleria”, un ambiente grande, lungo e stretto in cui trovavano posto le opere. Esse erano collocate anche all’aperto, nei cortili dei palazzi, insieme a elementi architettonici, pilastri, bassorilievi e architravi.

A seguito della volontà di nascondere le integrazioni, venne introdotto il concetto dipatina, definita dal Baldinucci “pelle del dipinto” e dovuta all’invecchiamento naturale. La patina era garanzia di autenticità e, dal momento che raramente la si trovava perfetta, si diffuse una letteratura che indicava come ottenerla artificialmente. Raffaello Borghini, ne “Il Riposo”, descrisse numerose patinature artificiali: «… alcuni pigliano della fuliggine, e la pongono al fuoco in aceto; poscia la colano, e di detta colatura con il pennello tingono il marmo. Altri pigliano della cannella e de’ carofani, e gli fanno bollire in orina (e quanto più bollano tanto più si fa oscura la tinta) e di questa così calda danno una o due sopra al marmo. Altri… per poter meglio contraffargli, prendono più colori dai dipintori e gli vanno mesticando insieme con olio di noce, finché trovino il colore che desiderano, facendone prova sopra il marmo, e di queste danno, dove fa luogo, per far unire il marmo nuovo con l’antico».

I bronzetti, rispetto alla grande statuaria, appartenevano al gusto privato del principe, che li teneva nel proprio studiolo per una fruizione privata.

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Nella straordinaria raccolta medicea, si trovava un cammeo antico in calcedonio raffigurante Minerva. Probabilmente il Cellini, lo aveva integrato nella parte mancante con un completamento in oro.

Ci si chiede se sia lecito o meno operare un de-restauro su opere che hanno vissuto questo tipo di vicende conservative. In passato, le reintegrazioni venivano rimosse con molta leggerezza, senza tenere conto del valore storico e artistico di esse e del risultato finale. La rimozione delle reintegrazioni, infatti, non riporta il manufatto all’aspetto precedente il vecchio restauro, ma molto spesso lo porta ad assumere un aspetto innaturale, con tagli vivi e irregolari. Le stesse considerazioni valgono per la pulitura dei dipinti, dal momento che si deve prestare molta attenzione a non rimuovere la patina usata per mascherare.

 

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