Cesare Brandi e la ‘cleaning controversy’

Di Laura Corchia

La pulitura, consistente nella rimozione di materia dalla superficie del dipinto, è una operazione completamente irreversibile. Se si assegna un valore al passaggio del tempo sull’opera d’arte, il compito di questa operazione non è quello di far tornare il manufatto come nuovo.

Nel corso della storia del restauro, ci sono stati moltissimi dibattiti e polemiche sulla pulitura, prima fra tutte quella definita “cleaning controversy”.

La “cleaning controversy” si svolse in due fasi:

  1. La prima, sviluppatasi a partire dal 1947, che vide contrapposto il laboratorio della National Gallery a Cesare Brandi;
  2. La seconda, collocabile agli inizi degli anni Sessanta, svoltasi interamente all’interno del mondo anglosassone.

La prima fase ebbe inizio con una mostra di alcuni dipinti oggetto di pulitura. Come copertina del catalogo, i restauratori scelsero un’incisione di William Hogarth dal titolo Il tempo affumica un dipinto. Non si trattò di una scelta casuale, ma di una precisa presa di posizione nei confronti  del passaggio del tempo sull’opera. L’immagine mostra infatti Saturno che fuma la pipa seduto di fronte a un dipinto e danneggia la superficie con una falce. Ai suoi piedi, frammenti di una scultura classica, a simboleggiare la distruzione che il tempo arreca ad ogni oggetto, e un orcio su cui è scritto “varnish”, cioè vernice.

I dipinti su cui si concentravano le critiche erano tre: la Donna al bagno di Rembrandt, il Cappello di paglia di Rubens e il Ritratto di Filippo IV di Velazquez.

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Rubens. Il cappello di paglia.
Rubens. Il cappello di paglia.

Nel 1949, Cesare Brandi pubblicò un articolo dal titolo La pulitura dei dipinti in relazione alla patina, alle vernici e alle velature, nel quale esprimeva la propria opinione riguardo l’importanza del tempo, della patina, delle velature e delle vernici stesse. A sostegno della propria tesi, Brandi citò tre dipinti in cui la vernice non svolgeva un ruolo di semplice rivestimento, ma era parte integrante della pittura. Inoltre, inserì nel suo articolo delle riflessioni sulle velature, cioè quegli ultimi leggerissimi tocchi dati dal pittore in fase finale. In sostanza, secondo Brandi si doveva sempre dimostrare che rimuovendo la vernice non si andavano a toccare gli strati pittorici. Lo studioso proponeva inoltre non la rimozione integrale, ma un assottigliamento.

Sentitisi chiamati in causa, i due restauratori della National Gallery risposero con un articolo sullo stesso giornale e dal titolo polemico: Alcune osservazioni concrete sulle vernici e le velature.

La risposta di Brandi non si fece attendere e nel 1950 sul Bollettino dell’I.C.R comparve un nuovo articolo in cui smontava e demoliva le affermazioni degli inglesi.

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Un tentativo di mediazione venne effettuato dall’Unesco che nel 1951 raccolse gli articoli di entrambe le parti in un volume.

Nel frattempo, la commissione convocata per indagare sui restauri effettuati dalla National Gallery aveva assolto i restauratori, servendosi anche di prove scientifiche effettuate sul cotone utilizzato per la pulitura che non avevano evidenziato tracce di pigmenti.

La teoria di Brandi non è stata mai abbracciata dal mondo inglese, né per quanto riguarda la pulitura, né per quanto riguarda la reintegrazione delle lacune, dove prevale ancora il rifacimento totale a imitazione.

La seconda fase della cleaning controversy si svolse tutta in ambito britannico. Ad avviare le polemiche fu, questa volta Helmut Ruhemann, capo restauratore della National Gallery. Egli sosteneva l’importanza della pulitura integrale e giunse anche a sostenere che lo sfumato leonardesco in realtà era solo il frutto di vernici inscurite e alterate.

Oltre alla Vergine delle Rocce, altre opere subirono una energica pulitura: la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca e il Bacco e Arianna di Tiziano. Quest’ultima opera, dopo il restauro, si presentava priva del colorismo tipico di Tiziano.

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