Piero di Cosimo: pittore stravagante e geniale nella Firenze del Rinascimento

di Laura Corchia

“Giocondo e facile pittore, forte e armonioso colorista, che risuscitava liberamente col suo pennello le favole pagane”.
(Gabriele d’Annunzio, Il piacere)

“.. Mentre che Cosimo Rosselli lavorava in Fiorenza, gli fu raccomandato un giovanetto per dovere imparar l’arte della pittura, […] il cui nome fu Piero; il quale aveva da natura uno spirito molto elevato, et era molto stratto e vario di fantasia, dagli altri giovani che stavono con Cosimo per imparare la medesima arte. […] Era costui tanto amico de la solitudine, che non aveva piacere se non quando pensoso da sé solo poteva andarsene fantasticando e fare i suoi castelli in aria. Volevagli un ben grande Cosimo suo maestro, per che se ne serviva talmente ne le opere sue, che spesso spesso gli faceva condurre molte cose che erano d’importanza, conoscendo che Piero aveva e piú bella maniera e miglior giudizio di lui”.

Con queste parole, Giorgio Vasari ci parla della personalità di Piero di Cosimo, pittore stravagante e geniale vissuto nella Firenze del pieno Rinascimento. Un uomo dal temperamento filosofico e pensoso, amante della solitudine.

Autoritratto
Autoritratto

Figlio di Lorenzo di Piero d’Antonio, artigiano “secchiellinaio” di modesta condizione, nacque nel 1461 o nel 1462 a Firenze. Secondo le fonti, il suo esordio avvenne nella città medicea, nel periodo in cui erano attivi Botticelli, Ghirlandaio e Leonardo. Come ricorda Vasari, fu messo a bottega da Cosimo Rosselli che “… lo prese più che volentieri, e fra molti discepoli ch’egli aveva, vedendolo crescere, con gli anni e con la virtù gli portò amore come a figliuolo e per tale lo tenne sempre”. Tra l’allievo e il maestro nacque un rapporto molto speciale, al punto che Piero volle assumere il patronimico, passando alla storia, appunto, come Piero “di Cosimo”. La stessa fonte vasariana ci dice che quando il suo padre adottivo morì, Piero si chiuse nella bottega per giorni interi e non permise a nessuno di accedervi.

Nel 1481 si recarono entrambi a Roma per lavorare nella Cappella Sistina: “…chiamato da papa Sisto, per far le storie de la cappella, in una de le quali Piero fece un paese bellissimo… E perché egli ritraeva di naturale molto eccellentemente, fece in Romadi molti ritratti di persone segnalate e particularmente quello di Verginio Orsino e di Ruberto Sanseverino, i quali misse in quelle istorie. Ritrasse ancora poi il duca Valentino figliuolo di papa Alessandro Sesto; la qual pittura oggi, che io sappia, non si trova; ma bene il cartone di sua mano, et è appresso al reverendo e virtuoso Messer Cosimo Bartoli, proposto di San Giovanni”.

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Vulcano ed Eolo, ca 1505
Vulcano ed Eolo, ca 1505

Il personalissimo stile di Piero, capace di coniugare magistralmente la stravaganza alla cultura antica, è particolarmente evidente nelle Storie dell’umanità primitiva, commissionate da Francesco del Pugliese. Si tratta di tre grandi spalliere raffiguranti scene della vita primordiale degli uomini incapaci di controllare e utilizzare il fuoco.

Piero, nelle sue opere, attinge al dato reale, ma cala questa realtà in un’astrazione che rende le scene simili a “favole antiche”. La sua fervida immaginazione era nutrita anche dal confronto con l’arte fiamminga. Piero è un grande indagatore del paesaggio e della natura. I suoi dipinti si popolano di animali che assumono soprattutto una valenza simbolica e i personaggi effigiati colpiscono per il forte coinvolgimento emotivo. La sua spettacolare regia è il risultato, come dice Vasari, di un “Ingegno astratto e difforme”.

Liberazione di Andromeda (1520 circa)
Liberazione di Andromeda (1520 circa)
Morte di Procri (1495 circa), Londra, National Gallery
Morte di Procri (1495 circa), Londra, National Gallery

“Costui era qualche volta tanto intento a quello che faceva, che ragionando di qualche cosa, come suole avvenire, nel fine del ragionamento, bisognava rifarsi da capo a racontargnene, essendo ito col cervello ad un’altra sua fantasia. Et era similmente tanto amico de la solitudine, che non aveva piacere, se non quando pensoso da sé solo poteva andarsene fantasticando e fare suoi castelli in aria […]”.

Egli del continuo stava rinchiuso, e non si lasciava veder lavorare, e teneva una vita da uomo più tosto bestiale che umano. Non voleva che le stanze si spazzassino, voleva mangiare all’ora che la fame veniva, e non voleva che si zappasse o potasse i frutti dell’orto, anzi lasciava crescere le viti et andare i tralci per terra, et i fichi non si potavono mai, né gli altri alberi, anzi si contentava veder salvatico ogni cosa come la sua natura, allegando che le cose d’essa natura bisogna lassarle custodire a lei senza farvi altro. Recavasi spesso a vedere o animali o erbe o qualche cosa, che la natura fa per istranezza et accaso di molte volte; e ne aveva un contento et una satisfazione che lo furava tutto a sé stesso. E replicavalo ne’ suoi ragionamenti tante volte, che veniva talvolta, ancor che è se n’avesse piacere, a fastidio. Fermavasi tallora a considerare un muro, dove lungamente fusse stato sputato da persone malate e ne cavava le battaglie de’ cavagli e le più fantastiche città e più gran paesi che si vedesse mai; simil faceva de’ nuvoli de l’aria. Diede opera al colorire a olio, avendo visto certe cose di Lionardo fumeggiate e finite con quella diligenza estrema, che soleva Lionardo quando è voleva mostrar l’arte, e così Piero piacendoli quel modo cercava imitarlo, quantunque egli fusse poi molto lontano da Lionardo e da l’altre maniere assai stravagante: perché bene si può dire che è la mutasse quasi a ciò ch’e’ faceva. E se Piero non fusse stato tanto astratto et avesse tenuto più conto di sé nella vita che egli non fece, arebbe fatto conoscere il grande ingegno che egli aveva, di maniera che sarebbe stato adorato, dove egli per la bestialità sua fu più tosto tenuto pazzo, ancora che egli non facesse male se non a sé solo nella fine e benefizio et utile con le opere a l’arte sua.

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E nel vero si conosce in quel che si vede di suo uno spirito molto vario et astratto dagli altri, e con certa sottilità nello investigare certe sottigliezze della natura, che penetrano, senza guardare a tempo o fatiche, solo per suo diletto e per il piacere dell’arte; e non poteva già essere altrimenti perché innamorato di lei, non curava de’ suoi comodi e si riduceva a mangiar continuamente ovva sode che per rispiarmare il fuoco, le coceva quando faceva bollir la colla; e non sei, o otto per volta, ma una cinquantina, e tenendole in una sporta, le consumava a poco a poco. Nella quale vita così strattamente godeva, che l’altre appetto alla sua gli parevano servitù. Aveva a noia il piagner de’ putti, il tossir de gli uomini, il suono delle campane, il cantar de’ frati; e quando diluviava il cielo d’acqua, aveva piacere di veder rovinarla a piombo da’ tetti e stritolarsi per terra. Aveva paura grandissima de le saette, e quando è tonava straordinariamente, si inviluppava nel mantello e serrato le finestre e l’uscio della camera, si recava in un cantone finché passasse la furia. Nel suo ragionamento era tanto diverso e vario, che qualche volta diceva sì belle cose che faceva crepar dalle risa altrui …

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Non voleva che i garzoni gli stessino intorno, di maniera che ogni aiuto per la sua bestialità gli era venuto meno. Venivagli voglia di lavorare e per il parletico non poteva. Et entrava in tanta collera che voleva sgarare le mani, che stessino ferme, e mentre che è borbotava, o gli cadeva la mazza da poggiare, o veramente i pennelli, che era una compassione. Adiravasi con le mosche, e gli dava noia infino a l’ombra; e così ammalatosi di vecchiaia e visitato pure da qualche amico, era pregato che dovesse acconciarsi con Dio. Ma non li pareva avere a morire, e tratteneva altrui d’oggi in domane. Non che è non fussi buono e non avessi fede, ché era zelantissimo, ancora che nella vita fusse bestiale. Ragionava qualche volta de’ tormenti che per i mali fanno distruggere i corpi e quanto stento patisce chi consumando gli spiriti a poco a poco si muore, il che è una gran miseria. Diceva male de’ medici, degli speziali e di coloro che guardano gli ammalati, e che gli fanno morire di fame; oltra i tormenti degli sciloppi, medicine, cristieri et altri martorii, come il non essere lasciato dormire, quando tu hai sonno, il fare testamento, il veder piagnere i parenti e lo stare in camera al buio; e lodava la giustizia, che era così bella cosa l’andare a la morte; e che si vedeva tanta aria e tanto popolo, che tu eri confortato con i confetti e con le buone parole; avevi il prete et il popolo, che pregava per te; e che andavi con gli Angeli in paradiso; che aveva una gran sorte, chi n’usciva a un tratto. E faceva discorsi e tirava le cose a’ più strani sensi che si potesse udire.»

Morte di Procri (1495 circa), Londra, National Gallery
Morte di Procri (1495 circa)

La vita di questo straordinario genio finì nel 1522: “Laonde per sì strane sue fantasie vivendo stranamente si condusse a tale, che una mattina fu trovato morto appiè d’una scala, l’anno MDXXI”. Portava con sé, nell’altro mondo, il suo magico e strabiliante immaginario, le sue favole, i suoi colori.

 

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