Il rapporto tra artisti e committenti nel XV secolo

Di Laura Corchia

Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale. Abbiamo da un lato un pittore che faceva il quadro e, dall’altro, qualcuno che lo commissionava, forniva il denaro per la sua realizzazione e decideva in che modo usarlo.

Beato Angelico, Angelo annunciante.
Beato Angelico, Angelo annunciante.

Nel 1400 la pittura era essenzialmente su commissione. Tra pittore e committente si stipulava un contratto legale nel quale erano indicate le modalità di esecuzione, di pagamento e di consegna. Le opere già pronte si limitavano invece a cassoni nuziali e Madonne. Un dipinto può essere considerato come il riflesso della vita socio-economica, dal momento che il suo stile appare fortemente influenzato dalla disposizioni del committente. Borso d’Este, ad esempio, riteneva opportuno pagare i dipinti a piede quadrato e, di conseguenza, otteneva opere molto diverse da quelle ottenute da coloro che davano un peso maggiore ai materiali usati e al tempo impiegato dal pittore.

I committenti richiedevano dei dipinti sulla base di molteplici motivazioni. Giovanni Rucellai, mercante fiorentino arricchitosi con l’usura, possedeva opere di maestri come Veneziano, Lippi, Uccello e Verrocchio. Egli era spinto dal desiderio di possedere oggetti di qualità e dalla necessità di trovare una forma di riparazione per aver guadagnato con il prestito di denaro.

Nel XV secolo il mercato dell’arte era dunque molto diverso rispetto a come si presenta oggi. Nella nostra società, i pittori dipingono ciò che ritengono opportuno e solo dopo vanno alla ricerca di un acquirente.

Nel 1457 Filippo Lippi dipinse per Giovanni di Cosimo de’ Medici un trittico destinato in dono al re Alfonso V di Napoli. Dal momento che il committente si trovava spesso fuori città, il pittore si manteneva con lui in contatto epistolare. Una missiva di quell’anno reca lo schizzo del trittico secondo il progetto concordato: a sinistra un San Bernardo, al centro un’adorazione del Bambino, a destra un san Michele.  La cornice appare disegnata in modo più chiaro.

Nel XV secolo, le commesse dei privati erano sovente destinate a luoghi pubblici e solitamente un pittore veniva assunto e controllato da una persona o da un piccolo gruppo. I principali obblighi contrattuali erano riassunti nei documenti legali: a volte si trattava di veri e propri atti redatti da un notaio, altre volte si scrivevano dei promemoria meno elaborati che dovevano essere tenuti da entrambe le parti. Non c’erano dei contratti che si possano definire tipici perché non c’era una forma fissa nemmeno all’interno di una stessa città. Domenico Ghirlandaio e il priore dello Spedale degli Innocenti stipulano nel 1488 un contratto per l’Adorazione dei Magi, tutt’oggi conservata all’interno della struttura. Questo contratto può essere considerato abbastanza tipico dell’epoca, in quanto contiene i tre temi principali di questo tipo di accordi:

  1. specifica ciò che il pittore deve dipingere sulla base di un disegno concordato;
  2. stabilisce i modi e i tempi di pagamento da parte del committente e i termini di consegna che il pittore deve rispettare;
  3. insiste sul fatto che l’artefice debba usare colori di buona qualità, soprattutto oro e azzurro ultramarino.
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Come si evince da questo contratto, solitamente committente e pittore prendevano accordi sulla base di un disegno preliminare e, talvolta, venivano elencate le figure che dovevano essere rappresentate. Il pagamento veniva effettuato spesso a rate e, talvolta, le spese del pittore erano distinte dal suo lavoro. Filippino Lippi, ad esempio, ricevette dal cardinal Carafa 2000 ducati per il suo apporto personale, mentre assistenti e azzurro ultramarino furono pagati a parte. Solitamente la somma concordata non era rigida, il pittore poteva rinegoziare il contratto e, se non si riusciva a raggiungere un accordo, potevano intervenire altri pittori in qualità di arbitri.

Nel contratto stipulato dal Ghirlandaio è evidente la preoccupazione del committente per quanto riguarda l’utilizzo dell’azzurro ultramarino. Si tratta di un pigmento tra i più pregiati, proveniente dalla polvere di lapislazzuli. Ne esistevano di diverse qualità e i committenti specificavano sovente la qualità desiderata (1, 2 o 4 fiorini l’oncia).  Questo colore veniva utilizzato per connotare le figure principali ma, a volte, si ritrova in particolari piuttosto interessanti: nel pannello del Sassetta raffigurante San Francesco rinuncia ai suoi beni, l’abito rifiutato dal Santo è una tunica di azzurro ultramarino. Negli affreschi raffiguranti la Vita della Vergine eseguiti da Gherardo Starnina in Santo Stefano a Empoli, per Maria è usata la qualità di azzurro ultramarino da 2 fiorini l’oncia, mentre per il resto ci si affida ad una qualità più scadente.

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Altri artisti percepivano dai committenti uno stipendio. Un caso ben documentato è quello di Andrea Mantegna, assunto dai marchesi Gonzaga di Mantova e pagato per dipingere affreschi, pannelli e per svolgere mansioni di varia natura. Si tratta di una posizione abbastanza singolare rispetto a quella dei grandi pittori del Quattrocento.

Nel corso del secolo si assiste a graduali cambiamenti nei contratti: mentre i colori preziosi perdono il loro ruolo di primo piano, la richiesta di abilità pittorica assume maggiore rilievo.

Nel corso del secolo si parla sempre meno nei contratti di oro e di azzurro ultramarino. L’oro viene sempre più riservato alla cornice e l’impiego dell’azzurro ultramarino assume un ruolo marginale. Si tratta di una tendenza che sconfina oltre l’ambito artistico e che investe anche altri ambiti. Il cliente sta gradualmente abbandonando le stoffe dorate e sgargianti in favore del più serio nero di Borgogna.

Per quanto concerne i dipinti, il committente sposta la sua attenzione sull’abilità tecnica del pittore. Un artista come Leon Battista Alberti, nel suo trattato Della Pittura, invitava gli artefici a rappresentare gli oggetti d’oro non con l’oro, ma attraverso un’abile applicazione del giallo e del bianco.

Un dipinto veniva pagato in base a due elementi: materiali e manodopera. Giovanni d’Agnolo de’ Bardi commissionò a Botticelli una pala d’altare destinata alla cappella di famiglia e, dal contratto stipulato il 3 Agosto 1485, si evince che il pittore ricevette 35 fiorini per il suo “pennello”, ovvero per la sua manodopera, e una somma a parte per i materiali impiegati.

Il cliente aveva a disposizione vari modi per trasferire il suo denaro dall’oro al pennello. Poteva richiedere sullo sfondo dei paesaggi invece della doratura, oppure poteva attribuire un valore notevolmente diverso al tempo del maestro rispetto ai suoi assistenti. Un esempio di tale clausola compare nel contratto stipulato tra Beato Angelico e papa Nicola V.  Una registrazione contabile conservata nell’archivio Vaticano indica chiaramente le tariffe dei quattro artefici: 200 fiorini all’anno per Beato Angelico e 108 fiorini da ripartire agli aiuti.

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Se una parte spropositata del dipinto era eseguita direttamente dal maestro si poteva pagare ovviamente molto di più. È ciò che accade nel contratto relativo alla Madonna della Misericordia di Piero della Francesca.

In genere, possiamo dire che il cliente conferisce ora il lustro al suo dipinto chiedendo l’intervento del maestro in persona. Esistevano comunque committenti, come Borso d’Este, che risultavano in stridente contrasto con le abitudini commerciali dell’epoca ma, in generale, i clienti di fine secolo erano più sensibili all’abilità del pittore di quanto lo fossero nel 1410.

I contratti dell’epoca tacciono su un aspetto molto importante: non indicano con quali specifiche caratteristiche dovesse manifestarsi l’abilità, né cosa si dovesse riconoscere come marchio a garanzia dell’abile pennellata. Poche descrizioni del Quattrocento danno conto dell’abilità dei pittori e non possono dunque essere considerate come rappresentative di un’opinione collettiva sufficientemente ampia.

Un resoconto genuino può essere considerato il promemoria redatto da un agente fiorentino e indirizzato al duca di Milano. Nel documento sono elencate le caratteristiche dei pittori che a Firenze andavano per la maggiore: Botticelli, Lippi, Perugino e Ghirlandaio. Di ogni pittore venivano elogiate le qualità e le relative specializzazioni. Nel documento emerge una sostanziale differenza tra pittura ad affresco e pittura su tavola e, soprattutto, i pittori vengono considerati come individui in concorrenza tra loro e dotati di un carattere proprio.

Questo resoconto, nonostante lo sforzo di elencare le diverse qualità di ogni artista, utilizza espressioni quali “aria virile”, “aria dolce”, “aria angelica”, “bona aria” e “proportione” che hanno un significato diverso rispetto a quello che potremmo attribuire oggi. Pittori, committenti e pubblico appartenevano a una cultura molto diversa dalla nostra e, di conseguenza, avevano un differente modo di guardare i dipinti. Questo diverso approccio alla pittura determina, in sostanza, lo stile delle opere.

 

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