Centri artistici e tradizioni di restauro in epoca rinascimentale e barocca

Di Laura Corchia

Alessandro Conti, tra gli altri meriti, ha avuto quello di sottolineare che, nell’ambito della conservazione delle opere d’arte, nel periodo tra Cinquecento e Settecento si erano create delle vere e proprie “tradizioni locali”.

Giorgione, I tre filosofi, olio su tela, 1508-09, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Giorgione, I tre filosofi, olio su tela, 1508-09, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Giorgio Vasari sottoponeva le opere ad un “giudizio di qualità”, in base al quale egli decideva quale meritava di essere conservata e quale invece non era degna di essere tramandata nel tempo. Di conseguenza, egli difendeva l’autenticità delle opere ed era contrario alle ridipinture ed ai rifacimenti. A tal proposito, significative sono le critiche che rivolge ai rifacimenti che il Sodoma eseguì sullaCirconcisione del Signorelli, dicendo che il dipinto «fu rifatto molto men bello che non era» e che«sarebbe meglio tenersi alcuna volta le cose fatte da uomini eccellenti più tosto mezze guaste, che farle ritoccare da chi sa meno».

A Firenze vi era uno stretto rapporto sentimentale tra nuovo artista e artista antico. Dal Baldinucci abbiamo notizia di un affresco di Andrea del Sarto con le Storie di San Filippo Benizi che, inavvertitamente, fu danneggiato da alcuni muratori. Il Passignano, per devozione verso uno dei maestri fiorentini per eccellenza, raccolse i pezzi di intonaco e cercò di ricomporli.

Una diversa tipologia di intervento è stata quella del reimpiego di un dipinto più antico, normalmente su tavola, all’interno di un più grande dipinto su tela.

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Per quanto riguarda le varie tipologie di restauro, nel Seicento erano diffusi i rifacimenti, gli aggiornamenti di stile e le trasformazioni dimensionali. Figura rilevante è Filippo Baldinucci autore, tra l’altro, del Vocabolario toscano dell’arte del disegno, utile per conoscere quali termini erano usati per definire il lessico dell’arte. Interessante è la definizione che da del termine “Restaurare”: “Rifare a una cosa le parti guaste, e quelle che mancano per vecchiezza, o per altro accidente simile; il che diremmo anche, ma in modo basso, rabberciare, rinnovare”. Per quanto riguarda un modo di intervenire sulle pitture di più basso livello, Baldinucci utilizza il termine “Rifiorire” (oggi diremmo “rinfrescare” una pittura): “quasi di nuovo fiorire; termine volgarissimo, con che usa la minuta gente esprimere quella sua insopportabile sciocchezza, di far talvolta ricoprir di nuovo colore, anche per mano di Maestro imperito, qual chè antica pittura, che in processo di tempo sia alquanto annerita, con che toglie non solo il bello della Pittura, ma eziandio l’apprezzabile dell’antichità”. È evidente il riconoscimento nell’opera d’arte del valore estetico e del valore storico. Il concetto sarà poi ripreso nel Novecento da Cesare Brandi che, appunto, parlerà di “istanza estetica” e di “istanza storica”. La sua mentalità di scrittore d’arte legato al collezionismo lo portava a considerare meno importanti le opere che avevano subìto dei ritocchi e che, dunque, avevano perso un po’ della loro autenticità.

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La condanna verso ritocchi e ridipinture continuerà fino al Novecento ma, sottobanco, saranno numerosi i dipinti sottoposti a questo tipo di intervento.

Una rivalutazione delle opere precedenti a Raffaello aveva portato alcuni pittori restauratori ad imitare il più possibile il maestro antico. Il più celebre era Augusto Veracini, capace di ingannare gli studiosi fin quasi all’epoca moderna.

Alcune trasformazioni possono poi essere viste come variazioni di gusto. Un recente restauro, ad esempio, ha riguardato l’affresco raffigurante Polifemo di Sebastiano del Piombo. In sostanza, sono state rimosse delle ridipinture seicentesche che avevano modificato il paesaggio di sfondo.

Sebastiano del Piombo, Polifemo, 1512, affresco, Roma, Villa Farnesina

Un caso curioso, noto dalla corrispondenza del cardinale Fabio Chigi, ha coinvolto gli affreschi di Raffaello con leSibille in Santa Maria della Pace. Queste pregevoli opere erano state danneggiate dai copisti che, per ricalcare le figure, utilizzavano carta oleata. Essa aveva, a lungo andare, macchiato gli affreschi. Si decise di pulirli con“pagnotte da contadini alquanto umide dentro, ovvero, ove occorre, calde, si frega la pittura e si leva tutta la polvere e contrattione del fumo, dell’aria e del tempo; di poi se li dà una mano sottilissima di chiara d’uovo la quale ravviva i colori mirabilmente”.

Oltre all’ambito toscano e romano, importanti centri ricchi di tradizioni locali erano Napoli, Venezia e Bologna. La scuola bolognese si segnala per il trattato di Carlo Malvasia, Felsina Pittrice. In esso emerge la figura diGuido Reni, pittore che aveva chiara l’importanza del rapporto dell’opera d’arte con il tempo. Egli usava la biacca per dipingere sul muro. Di fronte all’opinione di Ludovico Carracci, che riteneva dannoso tale procedimento, egli rispose che operava non guardando al risultato immediato ma pensando  a come con il tempo e con l’invecchiamento si sarebbe assestato il materiale utilizzato.

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Si tratta di una testimonianza sconvolgente, che ci obbliga ad interrogarci su quali siano le vere intenzioni dell’artista. Questo annulla completamente il luogo comune del “ritorno all’originale splendore”, visto che addirittura l’artista non considera finita la sua opera se non dopo un certo passaggio del tempo.

 

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