Di Laura Corchia
“Tra la mia pittura e la mia poesia non c’è discrepanza, cerco sempre la verità poetica, non quella naturalista.”
Questa frase, pronunciata nel 1920, spiega bene il pensiero di Hermann Hesse, grande scrittore conosciuto soprattutto per il suo romanzo più famoso, “Siddharta”.
Nato a Calw nel luglio del 1877, Hesse iniziò a dipingere solo in età matura, spinto da una necessità che egli stesso espresse in una lettera inviata a Franz Karl: “Dalla tristezza che spesso diventò insopportabile, trovai una via d’uscita per me cominciando a disegnare e a dipingere, ciò che non avevo mai fatto in vita mia. Non importa se ha un valore oggettivo; per me è un nuovo immergersi nel consolamento dell’arte, che lo scrivere non mi dava quasi più. Dedizione senza brama, amore senza desiderio”.
Nel 1916, trasferitosi a Berna, lo scrittore si sottopose ad una psicoanalisi e il suo medico lo incoraggiò a rappresentare in pittura i suoi sogni. Tre anni più tardi, si spostò a Montagnola e, conquistato dallo splendido paesaggio circostante, cominciò ad uscire, portandosi dietro uno sgabello, il cappello, una scatola di colori e una bottiglietta d’acqua.
“Ho in mano il mio sgabello da pittore, questo è il mio apparecchio magico e il mio mantello faustiano, con l’aiuto del quale ho fatto magia mille volte e ho vinto la lotta con la stupida realtà. E sulla schiena porto lo zaino, dentro c’è la mia tavola da dipingere, la mia tavolozza con i colori ad acquerello e una bottiglietta d’acqua per dipingere, e alcuni fogli di bella carta italiana…”
Pittore autodidatta, creò circa 3000 acquerelli che raffigurano soprattutto paesaggi attraverso colori raggianti: “Mi limito a semplici motivi di paesaggio, sembra che io non vada più avanti. Vedo sí come è bello tutto il resto, le arie e gli animali, la vita animata e il più bello, gli uomini, sono spesso commosso e quasi costernato, ma non riesco a dipingerlo.”
A partire dal 1917, Hesse si occupò intensamente anche di autoritratti e iniziò a corredare i suoi libri di poesie con illustrazioni proprie.
La pittura gli permetteva di isolarsi e di recuperare l’armonia interiore. Una sorta di via di fuga dalla realtà, quando questa diventava troppo pesante e difficile da sopportare. Nell’intento di intonare i colori, di accostarli l’uno all’altro, la mente di Hesse vagava in uno spazio indefinito, si liberava dai pensieri e, nel frattempo, dava forma a nuove idee. Come tanti artisti della sua epoca, egli lottava contro una terribile depressione. Nel descrivere un momento particolarmente difficile, usò queste parole: “Allora mi feci piccino piccino ed entrai nel mio quadro, salii sul trenino e penetrai con esso nel piccolo tunnel nero… poi il fumo si ritirò e svanì, e con esso tutto il quadro con me insieme”.
Vicino alla produzione di Matisse e di Kandisky, i suoi acquerelli mostrano una prevalenza di colori primari e una rappresentazione della realtà sintetica, gioiosa, a tratti infantile: “Nelle mie opere manca di frequente il normale rispetto della realtà e quando dipingo, le piante hanno un volto, e le case ridono o ballano o piangono, ma se l’albero sia un pero o un castagno per lo più non si può capire. Questo rimprovero devo accettarlo. Confesso che la mia stessa vita assai spesso mi sembra proprio come una favola, e sovente il mondo esterno mi appare con l’intimo mio in un rapporto unisono che devo chiamare magico.”
Spesso, Hesse donava le sue opere a parenti e amici, quasi un modo per esprimere un saluto o per trasmettere agli altri qualcosa di sé:
“Di solito non ho la smania della proprietà, mi separo facilmente e facilmente do via, ma ora mi assilla un fervore conservazionista di cui a volte io stesso devo sorridere. In giardino, sulla terrazza, sulla torretta sotto la meridiana, ogni giorno sto seduto per ore, a una tratto divenuto straordinariamente zelante, e con matita e penna, con pennello e colori cerco di mettere da parte questo e quello della fiorente ricchezza già in dissolvimento. Disegno accuratamente le ombre mattutine sulla scala del giardino e le contorsioni dei grossi serpenti del glicine e cerco di riprodurre le lontane, limpide tinte delle montagne al crepuscolo, diafane come un sospiro eppure fulvide come gioielli. Quindi rientro in casa stanco, e quando la sera metto i miei fogli nella cartella, quasi mi dà tristezza vedere quanto poco del tutto ho potuto segnare e fissare per me.”
Egli non si reputava uno scrittore o un pittore, bensì amava definirsi un artista. Nella sua incessante ricerca verso un’esistenza che potesse definirsi armoniosa, vide e scoprì la bellezza ovunque: annidata tra le fronde di un albero, impressa nelle prime luci del mattino oppure fissata nel nitore delle montagne che, da lontano, consolavano il suo animo.
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