Gian Lorenzo Bernini e “Il ratto di Proserpina”: dal mito all’opera

di Laura Corchia

Figlia di Demetra, Proserpina era una fanciulla dolce e soave, con due grandi occhi fiduciosi e profondi. Un mattino, mentre si trovava in compagnia di altre ninfee, un terribile boato lacerò l’aria. Dal ventre della terra, fece irruzione un dio su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli nerissimi e, con un gesto improvviso, l’afferrò. Era Plutone che, invaghitosi di lei, aveva chiesto a Giove di poterla sposare. Ottenuto il permesso, era venuto sulla terra per rapirla e portarla con sé nel regno delle tenebre. A nulla erano valse le grida e le suppliche di Proserpina che, prima di entrare nel grembo della terra, rivolse alla madre un’ultima disperata preghiera. Demetra l’udì dall’Olimpo e scese alla disperata ricerca della figlia. Vagò per nove giorni e nove notti finché, in preda alla più folle angoscia, chiese aiuto al Sole. Questi le rivelò che Proserpina era stata rapita da Plutone e che era stata condotta nell’Oltretomba. Demetra, allora, disperata, si rifugiò ad Eleusi, dimenticandosi della terra che aspettava la sua protezione. Così, a poco a poco, i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori persero i loro bei colori e la terra divenne brulla e riarsa. Nonostante le suppliche di tutti gli dei, ma Demetra non si lasciò convincere a ridare nuova vita alle messi e ai campi. Mercurio, spinto da Giove, si recò da Plutone e lo convinse a restituire la fanciulla alla madre almeno per una sola parte dell’anno, la primavera. Fu così che i prati si coprirono nuovamente di fiori e i frutti cominciarono a maturare sugli alberi.

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Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina, 1621-22

Ho voluto iniziare con il racconto del rapimento di Proserpina per permettere al lettore di immaginare la scena e di trasporla nel meraviglioso marmo scolpito da Gian Lorenzo Bernini tra il 1621 e il 1622. Lo scultore sceglie di rappresentare il momento più drammatico, quello in cui la fanciulla viene afferrata con forza da Plutone. Le mani del dio affondano nella morbida coscia della donna, pesanti, avide, premono con naturalezza e forza tanto da far intendere il loro lasciare il segno sulla pelle morbida, eppure anch’essa di impensabile, duro marmo. I corpi compiono una torsione elicoidale, i volti sono colti in espressioni sofferte. L’una cerca di sfuggire, l’altro cerca di trattenerla anche con lo sguardo.

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Proserpina, per la particolarità della sua storia, è spesso assunta a simbolo dell’infelicità coniugale. Qui, invece, ancora ignara del suo destino, la vediamo rappresentata come una qualsiasi fanciulla che cerca di sfuggire ad un amore non richiesto, né corrisposto. Per Bernini, quindi, l’occasione data da questa statua è di creare un movimento dinamico tra la forza avvolgente di Plutone e quella respingente di Proserpina. Ne consegue un complesso monumentale di notevole complessità, con le due figure che si avvolgono su se stesse creando una forma a spirale, quasi a materializzare fisicamente un forza che produce torsione.

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Bernini definisce con esemplare maestria i capelli, come ricamati nel marmo, le mani possenti di Plutone, il volto della ragazza colto dalla disperazione. Il suo volto è solcato dalle lacrime, la sua veste strappata con forza ricade in un morbido panneggio.

Due figure che paiono vive, sofferente l’una, possente e caparbia l’altra.  Il pathos è tradotto qui in gesti di straordinaria bellezza, eterni, come il mutare delle stagioni.

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