Auguste Rodin, “Danaide”: il candore sensuale del marmo

di Laura Corchia

Una figura sensualmente raffigurata di schiena, accovacciata. I lunghi capelli sfumano nel marmo in un “non finito” di derivazione michelangiolesca.

In Danaide, Auguste Rodin riesce a rendere la differente consistenza materica: la pelle candida e lucente, la chioma fluente, il sasso scabroso dal quale la figura emerge. La curva della schiena, così definita in ogni dettaglio, è un lirico richiamo alla sensualità e all’amore.

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Rispetto al bozzetto, l’opera marmorea appare maggiormente rannicchiata, come a voler mettere in risalto il senso di isolamento e di solitudine. La figura si immerge dolorosamente nella terra o, al contrario, emerge faticosamente. Una figura sensuale e morbida, per la quale posò, secondo la tradizione, l’allieva e amante Camille Claudel.

Sotto lo scalpello di Rodin, il marmo pare animarsi e andare contro la sua stessa natura di materia immobile e pesante. La figura fu ripresa dalla coeva Andromeda, che sembra derivare dallo stesso modello.

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La versione in marmo fu scolpita nel 1885 da Jean Escoula, un raffinato allievo di Rodin. Sebbene il titolo qualifichi la donna come una delle cinquanta figlie di Danao, nessun elemento iconografico mostra sufficienti rimandi al mito. Secondo il mito greco, le figlie di Danao andarono spose ai cinquanta figli del fratello di questi, Egitto. Danao ordinò alle figlie di decapitare gli sposi dopo la prima notte di nozze, temendo che le nozze fossero state programmate dal fratello solo per distruggere la propria famiglia. Solo Ipermestra risparmiò la vita al marito perché egli l’aveva rispettata durante la notte. L’opera, nata forse una una personale interpretazione di Rodin, rappresenta probabilmente proprio il dolore di Ipermestra, oppure un’altra delle figlie prostrata e quasi immersa nella roccia dove espia la colpa di aver ucciso il proprio marito su ordine del padre, spossata dalla fatica di dover riempire all’infinito un otre senza fondo.

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