Pittura al femminile: pregevoli esempi di “donnesca mano”

di Adriana Maria Riccioli
Il ruolo delle donne nell’arte è stato troppo a lungo sottovalutato a causa di una cultura maschilista che ha voluto limitare il loro campo d’azione all’ambito familiare.
Eppure, anche nell’antichità non sono mancate figure di assoluto spicco al riguardo.

Già con Plinio (23-70 d.C) si cominciano ad avere riferimenti attendibili sia in relazione ad una certa Timarete, figlia di Mikon, pittore di stile severo, autrice di una “Artemide” ad Efeso, sia in riferimento a Kalipso(medio ellenismo), impegnata nella realizzazione di soggetti di genere.

Da Tolomeo di Efestione (citato in Fozio) si hanno notizie intorno ad Helene, figlia di Timone, vissuta fra l’età di Alessandro Magno e quella dei Diadochi, la cui opera più celebre si individua nella “Battaglia di Isso”, uno dei possibili modelli per il noto mosaico pompeiano.

Questi casi citati non sono gli unici ma servono a farci intuire la presenza di una realtà artistica femminile, il cui ricordo è andato sfumando nell’anonimato che caratterizza anche l’arte greca e quella romana.

Attraverso i secoli, le oggettive qualità delle donne artiste hanno trovato però valido supporto nel riconoscimento di personaggi eccellenti quali l’Ariosto, il Vasari, o il contemporaneo Francesco Solinas del College de France, per citarne alcuni.

In proposito, giova ricordare i versi dell’Orlando furioso:le donne sono venute in eccellenza di ciascun’arte ove hanno posto cura”, mentre per Giorgio Vasari era già nata nel corso del Cinquecento “la donnesca mano,” caratterizzata da coerenza formale e concettuale, approccio naturalistico, grande attenzione al dettaglio (Vite de’ più eccellenti pittori, scultori architettori, seconda edizione). Dal canto suo, Francesco Solinas, co-curatore della mostra allestita al Museo delle Belle Arti di Ghent, esalta le Signore italiane del Barocco.

E’ interessante rilevare altresì come un grande impulso all’arte al femminile provenga dalla Chiesa. Per combattere infatti il protestantesimo iconoclasta, promuovere il culto delle immagini, propagandare la verità rivelata, il Concilio di Trento (1545-63), indetto da Paolo III, decide di avvalersi della pittura e della musica come arma vincente. Questa scelta strategica consente a donne di grande talento di mettere la propria creatività al servizio della causa romana, per non parlare dell’autentico contributo sociale che ne scaturisce.

Leggi anche  Hieronymus Bosch e l' "Arte di morire"

Pronte a cogliere l’opportunità offerta dalla Sacra Istituzione diverse donne, in massima parte mogli, sorelle, figlie di pittori si propongono come artiste indipendenti. Sulla scia dell’esempio dei propri familiari iniziano dunque a dipingere, personalizzando nel tempo il proprio modo di esprimersi, con “una chiara colorazione politica finora poco presa in considerazione dagli storici dell’arte, come sostiene il Salinas.

Conferendo un’impronta singolare alle proprie realizzazioni, ognuna di loro consegue risultati degni di nota, impegnandosi non solo in soggetti di devozione che potrebbero sembrare i più adeguati a sostenere la strategia papista, ma anche in ritratti e nature in posa in cui si riconosce precisione e bellezza di colori.

Così, accanto ad Artemisia Gentileschi (1593-1652), esaltata per la sua pregevole, variegata produzione, tra cui la “Giuditta ed Oloferne”(Museo di Capodimonte,1620),espressione della volontà di riscatto per le crudeli vicende subite, o la “Conversione della Maddalena”(Galleria degli Uffizi ,Firenze ,1616-17), esempio di delicato equilibrio tra vita peccaminosa e incontro col divino, devono essere ricordate SofonisbaAnguissola (1532-1625) e Lavinia Fontana (1552-1614).

La prima, approdata alla corte di Filippo II di Spagna, come dama della regina, diviene ritrattista accreditata della famiglia reale, la seconda citata dall’abate Luigi Lanzi nella sua “Storia pittorica in Italia” (1795-96) per la soavità di pennello è richiesta dalle donne romane per l’abilità con cui evidenzia gli ornamenti delle loro vesti.E’ opportuno ricordare, tra l’altro, il suo impegno nella realizzazione del primo esempio di nudo femminile “Venere nell’atto di vestirsi”(1613), seppure riferito ad una dea. Anche Baldassarre Castiglione mette in luce la sua immagine di donna virtuosa, ideale, nel pieno significato dei due termini.

Leggi anche  “Sei bella”: la meravigliosa poesia di Angelo De Pascalis dedicata a tutte le donne

Grande contributo alla rappresentazione della natura morta, in cui talvolta si sottintende il senso della caducità umana, viene dato da Fede Galizia (1578-1630) e Giovanna Garzoni (1600-1670).

Fede Galizia, “Natura morta”

La Galizia, pur essendo ritrattista di fama, si specializza in questo genere, forse spronata da Arcimboldo che fa conoscere le sue creazioni alla corte di Rodolfo II a Praga. I dipinti in oggetto, che propongono solo fiori e frutti indigeni, spesso al limite della marcescenza, appannaggio in massima parte di collezioni private, appaiono per la metafora sottesa, adeguata ai dettami della Controriforma.

Giovanna Garzoni, con le sue dettagliatissime composizioni, dopo aver realizzato un erbario dipintoper il farmacista Enrico Corvino, si impegna nella redazione di tavole botaniche per conto del suo mecenate, lo scienziato Cassiano del Pozzo. Divenuta un’eccellente miniaturista, lascia un patrimonio prezioso di pergamene eseguite a guazzetto con rappresentazioni di fiori e frutti conosciuti all’epoca, compresi quelli provenienti dal Nuovo Mondo.

Un caso a parte è costituito da Orsola Maddalena Caccia (1596-1676), una badessa attiva fino all’età di ottant’anni, che vive inizialmente nel monastero delle Orsoline di Bianzè per poi trasferirsi nel convento di Moncalvo (1626), fondato e finanziato dal genitore, pittore conosciuto all’epoca, nominato barone per meriti artistici, responsabile della sua iniziale formazione pittorica. Il suo stile, che in un primo momento ricalca quello paterno, si arricchisce quando ha modo di conoscere i fiamminghi, Leonardo, Raffaello e Caravaggio.

Questi nuovi apporti la fanno apprezzare al punto da ricevere richieste non solo da responsabili di chiese e conventi ma anche da famiglie altolocate e persino dalla corte sabauda, alla quale la lega un’amicizia personale con l’Infanta Margherita di Savoia.

Il suo nome viene spesso associato al genere della natura morta, composizioni dotate di grande fascino per i colori brillanti che si stagliano sul fondo scuro e di cui l’artista pone degli inserti anche nei dipinti di carattere devozionale, come nel caso della “Sacra Conversazione,” collocata nella chiesa di S.Giacomo di Bellagio, attribuitale in tempi recenti da Vittorio Sgarbi.

Leggi anche  "I gabbiani" e il loro incessante balenare in burrasca: la meravigliosa poesia di Vincenzo Cardarelli

Cancellata dalla memoria collettiva nel Settecento e nell’Ottocento, viene rivalutata ad opera dell’associazione moncalvese “Guglielmo e Orsola Caccia” che ha promosso una serie di restauri della sue opere pittoriche.

Gli interventi di ripristino sono stati a tal punto apprezzati da critici e storici dell’arte che nel giro di due anni le opere della badessa sono state richieste per mostre internazionali, prima negli Stati Uniti, poi nel Belgio. Il rinnovato interesse, incrementando studi approfonditi, ha poi condotto al ritrovamento di un’opera inedita” Il pentimento di Maria Maddalena”che per l’abbigliamento sontuoso, riconducibile alla moda del 1630-40, può essere utilmente accostata alla tela con la “Santa Margherita d’Antiochia e il drago”(1630 circa), posta oggi nel Santuario piemontese di Crea. Secondo il Niccolini, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, la Santa, che viene raffigurata in una oscura prigione, aggredita dal Diavolo che ha assunto le sembianze di un terribile drago, mostra un atteggiamento in certo modo “ambiguo”.

Se da un lato il suo sguardo si fissa sulla colomba dello Spirito Santo per cui sostiene tanta ambascia, dall’altro le sue gote colorate di rosa sembrano manifestare un sentimento di altra natura, una tensione puramente erotica scaturita dall’approccio ardente del dragone che ne afferra il ventre e con la lingua sinuosa ne lambisce l’orecchio. E’ come se l’artista, identificandosi con il personaggio, rendesse manifesto un proprio sogno inconfessabile, un sogno del tutto inadeguato per il ruolo che ricopre, ma che suo malgrado, non riesce a reprimere.

Davvero interessante la professionalità con cui la pittrice, pur nei limiti della propria condizione di religiosa e nel linguaggio imposto dalla Controriforma,comunichi emozioni ed impegno artistico!

Lascia un commento