La pittura di Guido Reni: l’esaltazione del classicismo

di Laura Corchia

“Il genio di Guido non era né molto vivace né molto grande; egli non riusciva allo stesso modo in tutti i temi. Siccome aveva più nobiltà, dolcezza e grazia che forza e fierezza, gli si addicevano più degli altri i soggetti devozionali e teneri”.

(M. Dargens)

E’ Giovan Pietro Bellori a raccontarci la vita di Guido Reni, pittore nato a Bologna nel 1575. Figlio di un musicista, fu avviato alla stessa carriera del padre, finché non incontrò Denijs Calvaert, un artista fiammingo che lo incoraggiò ad “appendere al chiodo” gli strumenti musicali e ad impugnare il pennello:

“E così Guido nell’accademia della musica trovò la scuola della pittura, dandoci a conoscere che quando ci spinge il cielo, anco per contrario sentiero corriamo alla meta”.

San Michele arcangelo (1635), chiesa di Santa Maria della Concezione, Roma
San Michele arcangelo (1635), chiesa di Santa Maria della Concezione, Roma

Morto il padre nel 1594, Guido lasciò la bottega di Calvaert per aderire all’Accademia degli Incamminati. Qualche anno più tardi partì alla volta di Roma dove ebbe modo di studiare l’arte di Annibale Carracci, Caravaggio e Raffaello.

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A differenza di Caravaggio, Guido è convinto che che il pittore debba imitare la realtà, ma idealizzandone le forme e cercando costantemente il bello. Se Caravaggio dipingeva la natura così come si presenta, anche con i suoi difetti, Guido cercava la bellezza ideale. Egli stesso lo sostenne in una lettera che accompagnava un quadro raffigurante San Michele Arcangelo: “Vorrei aver avuto pennello angelico e forme di paradiso, per formar l’arcangelo e vederlo in cielo, ma io non ho potuto salir tant’alto, sicché ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita”. 

Strage degli innocenti (1611), Pinacoteca Nazionale, Bologna
Strage degli innocenti (1611), Pinacoteca Nazionale, Bologna

La sua poetica è ben esemplificata dalla tela raffigurante la Strage degli Innocenti, dipinta nel 1611. L’opera può essere divisa in due parti: in basso, una folla di figure si accalca sulla scena. In alto, un ultimo raggio si sole illumina il cielo plumbeo. Due angeli distribuiscono le palme del martirio e si caratterizzano per i volti sereni, in netto contrasto con la disperazione delle madri e l’efferatezza dei carnefici. In basso, due corpicini inermi hanno già consegnato la loro anima a Dio, mentre altri fanciulli sono strenuamente difesi dalle loro madri. Gli occhi rivelano paura, e disperazione. Le bocche spalancate urlano la loro angoscia. Gli aguzzini hanno i volti in ombra, come a voler sottolineare il peccato di cui si stanno macchiando. Solo le mani sono illuminate da una luce che mette in risalto il gesto criminale.

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Atalanta e Ippomene, (ca 1625) Museo di Capodimonte, Napoli
Atalanta e Ippomene, (ca 1625) Museo di Capodimonte, Napoli

Attorno al 1615-20, Guido dipinse un soggetto mitologico: Atalanta e Ippomene. Una splendida descrizione ci viene fornita da Cesare Garboli: “Nudi da Erebo, fantasmi di un imbrunire perpetuo, Atalanta e Ippomene sono colpiti da una luce spettrale: evocati, richiamati dal nulla….le carni s’imbevono di una luce astratta, lunare. Una diagonale di rossori, in quel pallore livido, d’incarnati più rosei, un soffio appena vitale attraversa le mani dei due adolescenti, scalando dal volto del giovane fino alla mano della fanciulla che interrompe la corsa e si distrae a raccogliere il pomo gettato dal rivale: un gesto – lapsus, che nel suo curvo ritmo di danza scopre una nudità di membra molli, lievemente deteriorate…Atalanta assorta in un’ermetica indifferenza, Ippomene che si ritrae spaventato dalla magia fascinatrice del pomo, divergono in un rapporto di fraterna, incomunicabile solitudine…”.

Gli ultimi anni della sua vita, come sostiene il suo biografo, furono segnati dai debiti che lo costrinsero “a lavorare mezze figure e teste alla prima, e senza il letto sotto; a finire inconsideratamente le storie e le tavole più riguardevoli; a prender denaro a cambio da tutti; a non ricusare ogni imprestito da gli amici; a vendere, vil mercenario, l’opra sua e le giornate a un tanto l’ora”.

Depresso, scrisse, “…comincio a non piacere più nemmeno a me stesso”, […] conoscendo essere vissuto assai, anzi troppo, dando fastidio a tanti altri, forzati a star bassi finch’io vivo”.

“Colto da febbri”, lasciò questo mondo il 6 agosto 1642.

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