Restauri a Firenze nel primo Novecento

Di Laura Corchia

Opificio delle Pietre Dure è il nome con cui nell’Ottocento si designavano le manifatture di corte, fondate dai Medici nel 1588.

In questi laboratori si producevano oggetti di oreficieria, ebanisteria, arazzi e, soprattutto, si effettuava il commesso di pietre dure, una sorta di tarsia figurata eseguita con pietre semipreziose (lapislazzuli, corniole, agate ecc..)

Dopo l’Unità d’Italia, il direttore Edoardo Marchionni decise di mutare il lavoro degli artigiani e dei tecnici dell’Opificio, affidando loro l’esclusiva conservazione delle opere.

Uno dei primi restauri effettuati dall’Opificio interessò i mosaici del Battistero fiorentino. Le zone cadute erano state sostituite da affreschi a finto mosaico già nel Trecento da Agnolo Gaddi e tale attività era continuata fino a quel momento. Si decise quindi di eliminare le parti aggiunte e di affidare all’Opificio il rifacimento dei mosaici. Le parti rifatte sono individuabili grazie ad una targa, recante la data 1906, e ad una linea di tessere bianche che circonda il perimetro dell’area di restauro. Il degrado delle malte fu risolto con l’impiego di materiali nuovi, quali malte cementizie, reti e perni per collegare i pezzi. I disegni per i cartoni erano stati eseguiti dal pittore senese Antonio Viligiardi, con la consulenza dello storico dell’arte Pietro Toesca.

Firenze, Mosaici del Battistero
Firenze, Mosaici del Battistero

Il restauro dei dipinti non era compito dell’Opificio, ma delle Gallerie e della Soprintendenza, per la quale lavoravano alcuni restauratori privati eredi della tradizione locale.

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Uno di essi fu Domenico Fiscali (figlio di Filippo), il quale aveva ereditato l’abilità tecnica e la velocità di esecuzione paterna. Egli intervenne sugli affreschi di Paolo Uccello nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella, sulla Madonna del Parto, sulla Leggenda della vera Croce e sulla Resurrezione di Piero della Francesca.

Nel 1910 la scuola lombarda e quella toscana si trovarono a contatto in modo polemico. Luigi Cavenaghi venne chiamato dal Ministero per far parte di una commissione che doveva giudicare due restauri eseguiti dal tedesco Otto Vermehren e che avevano suscitato alcune polemiche nell’ambiente fiorentino. I dipinti coinvolti erano il Ritratto di Vincenzo Mosti di Tiziano, un Ritratto di Moroni e l’Autoritratto di Rembrandt. Le tre opere erano state pulite in maniera accurata, meticolosa e precisa, ma il restauratore non aveva cercato di recuperare l’intonazione ambrata tanto apprezzata dal pubblico di allora e si era limitato a passare una vernice trasparente che aveva reso i toni più freddi. Nella sua relazione, Cavenaghi affermò che il restauratore non aveva danneggiato i dipinti, ma era solo responsabile di non aver ultimato il lavoro. Ciò sottolineò la divergenza tra le due scuole: da un lato la mentalità del Cavenaghi, ancora legato ad un gusto per la patinatura, dall’altro la nuova mentalità scientifica che si stava affermando nelle Gallerie Fiorentine.

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Un altro restauratore attivo nell’ambiente fiorentino fu Fabrizio Lucarini, che intervenne sulla Madonna col Bambino di Pietro Lorenzetti e sull’Incoronazione della Vergine di Botticelli.

Per quanto riguarda i dipinti murali, un ruolo importante fu svolto dalla bottega dei Benini. Questa famiglia fu protagonista di bellissime scoperte, ad esempio il San Giuliano di Andrea del Castagno posto sotto una pala d’altare nella chiesa della Santissima Annunziata. In vista delle celebrazioni del centenario giottesco (1937), Ugo Procacci incaricò i Benini di effettuare un intervento di manutenzione sulle cappelle Bardi e Peruzzi. Questa operazione fu affiancata da un’iniziativa di ricerca, grazie alla quale si riuscirono ad individuare le giornate e l’esatta tecnica pittorica giottesca e si distinsero le parti originali da quelle rifatte nel corso dell’Ottocento. A questo incarico ne seguì un altro simile: dallo studio dei documenti d’archivio, Procacci venne a conoscenza dell’esistenza, all’interno della Cappella Tornabuoni decorata dal Ghirlandaio, di una serie di quadrilobi con teste di santi e profeti dipinti dall’Orcagna. Incaricò dunque i Benini di eseguire dei saggi che confermarono tale notizia. Autorizzò, allora,  il distacco delle pitture del Ghirlandaio, riportò alla luce quelle dell’Orcagna che, a loro volta, furono staccate e ricollocò nuovamente le prime.

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Maso di Banco, particolare degli affreschi della Cappella Bardi
Maso di Banco, particolare degli affreschi della Cappella Bardi

 

La fortuna dei Benini cominciò a declinare a seguito di un intervento effettuato nella Cappella Bardi di Vernio dipinta da Maso di Banco. Gli affreschi, abrasi e consunti, vennero ritoccati forse eccessivamente e questo provocò delle pesanti critiche, anche da parte di Roberto Longhi che, nel recensire il lavoro, redasse una vera e propria stroncatura.

 

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BIBLIOGRAFIA

M. Ciatti, Appunti per un manuale di storia e di teoria del restauro : dispense per gli studenti / con la collaborazione di Francesca Martusciello, Firenze, Edifir, 2009

 

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