Giuseppe Arcimboldi: pittura tra artificio e meraviglia

di Laura Corchia

Figure grottesche e meravigliose create attraverso composizioni di frutti, fiori e altri oggetti. L’arte di Giuseppe Arcimboldi sfugge a qualsiasi classificazione, tanta è la capacità dell’artista di dare vita a rappresentazioni tutte giocate sul piano simbolico.

Nato a Milano nel 1526, svolse il suo primo apprendistato nella bottega del padre Biagio, pittore accreditato presso la Veneranda Fabbrica del Duomo. Della sua attività giovanile si conosce poco, ma si è portati a pensare che essa sia stata piuttosto intensa, dal momento che l’amico storico Paolo Morigia parla di lui come di «…pittore raro, e in molte altre virtù studioso, e eccellente; e dopo l’aver dato saggio di lui, e del suo valore, così nella pittura come in diverse bizzarrie, non solo nella patria, ma ancor fuori, acquistasse gran lode…».

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Primavera


La stessa fonte dice che nel 1562 l’artista partì alla volta di Vienna, presso la corte di Massimiliano II d’Asburgo, dove «…fu molto benvoluto e accarezzato […], et raccolto con grande umanità, et con honorato stipendio…».

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Qui, oltre alla pittura, si dedicò all’ideazione di tornei, spettacoli, scenografie e costumi.

Nonostante la fama, sono giunte fino a noi pochissime opere certe, tra cui le otto tavole raffiguranti le quattro stagioni e i quattro elementi della cosmologia aristotelica. Pensate per fronteggiarsi a coppie sulle pareti, queste pitture colpiscono per la lenticolare resa dei dettagli e per la bizzarria con cui gli elementi sono composti.

Alla morte di Massimiliano, il pittore si trasferì a Praga, lavorando anche come consigliere per il nuovo imperatore Rodolfo II che desiderava costituire una stanza delle meraviglie.

Inverno
Inverno

Rientrato a Milano, morì misteriosamente nel 1593 per mano di un assassino. Le sue opere furono oggetto di numerose imitazioni, al punto che Gregorio Comanini, primo critico del pittore, così scriveva: “… et quante per le botteghe di molti pittori se ne veggono assai rozzamente composte tutte sono imitationi e semplici ruberie delle sue cose.”

Le sue teste tanto imitate rappresentano una sorta di rebus, un invito giocoso a cercare il significato nascosto delle cose. Le sue bizzarre figure suscitano curiosità e meraviglia, ma anche inquietudine e, come ha sostenuto Roland Barthes, addirittura repulsione: “Le teste di Arcimboldo sono mostruose perché rimandano tutte, quale che sia la grazia del soggetto allegorico, […] ad un malessere sostanziale: il brulichio. La mischia delle cose viventi […] disposte in un disordine stipato (prima di giungere alla intelligibilità della figura finale) evoca una vita tutta larvale, un pullulìo di esseri vegetativi, vermi, feti, visceri al limite della vita, non ancora nati eppure già putrescenti”.

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Acqua
Acqua

Il brulichio avvertito da Barthes può essere inteso come l’estremo tentativo di riunire in un unico luogo tutte le forme della natura, così come un collezionista cerca di chiudere in una stanza tutte le meraviglie del cosmo.

“Un pittore come l’Arcimboldi, pure con un talento e con una serietà (ci sia concesso di dirlo!) ben superiori a certi moderni, a noi moderni, alla sua epoca, anche nel miglior favore non fu certo considerato che come elegante e squisito artefice, ma non come un grande, non solo da non porsi nello stesso cielo (nell’arte come nella santità vi è pure una scala della perfezione) di Raffaello e di Tiziano, ma neppure in quello del Perugino o del Francia. Arte preziosa, ma un po’ fredda, decorativa fiamingheggiante (si pensi alle nature morte del Baschenis o di qualche olandese) del tempo; ma un po’ folle e perversa. […] L’Arcimboldi compose in uno spirito che fa presentire l’Arcadia, una figura dell’Agricoltura con aratri, zappe, rastrelli e biondi covoni a quella guisa che alcuni pittori moderni potrebbero comporre la figura dell’uomo nuovo, con apparecchi di telegrafia senza fili, aeroplani, eliche e motori. In parte è stato tentato: pensate ai pittori così detti metafisici o ad alcuni futuristi”.
(Filippo de Pisis, L’Arcimboldi italiano e i surrealisti parigini, in “L’italiano”, 14 gennaio 1934).

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