Felice Casorati e il “Realismo magico”: il sottile filo dell’inquietudine

di Laura Corchia

“Vorrei saper proclamare la dolcezza di fissare sulla tela le anime estatiche e ferme, le cose immobili e mute, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi, la vita di gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno”.

(Felice Casorati)

Pittore ieratico ed ermetico, silenzioso e solitario, Felice Casorati è uno dei più apprezzati rappresentanti del Realismo magico, corrente affermatasi nel Dopoguerra come necessità di un ritorno all’ordine, di una volontà di mettere fine alle Avanguardie e di riappropriarsi della classicità.

Eppure, c’era un tempo in cui il pittore, appena laureato in giurisprudenza, si rifugiava nel mondo dei sogni e dipingeva fatati ed enormi cieli stellati: “Sono diventato un visionario, un sognatore e non dipingo più che le immagini che vedo nei sogni: le notti stellate, gli esseri invisibili, gli spiriti puri, le allucinazioni… Tutto voglio purché non sia di questa vita meschina, goffa, puerile. Tutto, purché sia fuori dalle cose vere, dalla natura materiale… ma sia soltanto soffio, sorriso, luce, tenebra”, scriveva all’amica Tersilia.

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L’attesa, 1818-19

Ad interrompere le fantasie del giovane Casorati ci pensò la guerra, feroce e crudele flagello voluto dall’uomo. E i conflitti, si sa, segnano profondamente chi li vive. In un Paese come l’Italia, in cui il tumulto della guerra aveva spazzato via ogni desiderio di provocazione, i giovani erano desiderosi di recuperare un po’ di normalità, anche in pittura.

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Nacque la formula del Realismo magico, un felice ossimoro di termini in apparenza contraddittori, che stava a indicare una pittura dai soggetti reali eppur misteriosi e intrisi di una sottile inquietudine.

Meriggio, 1923
Meriggio, 1923

Il personale stile di Casorati era fatto di armonia delle forme, geometrica partizione degli spazi e nitide volumetrie. Tra le sue opere più note va menzionata Meriggio, un olio su tavola dipinto nel 1923. In primo piano, due donne nude riposano su una coperta; una ragazza traccia una diagonale con il suo corpo, mentre l’altra è un’evidente citazione del Cristo Morto di Andrea Mantegna. Tra gli oggetti raffigurati nella stanza, due di essi suggeriscono l’identità della terza inquietante figura maschile posta sullo sfondo e della quale si intravede solo la schiena: due pantofole rosse e un cappello da prete.

Torino e la città in cui l’artista trovò la sua vocazione, in cui i suoi dubbi, la sua malinconia finalmente si espressero in maniera più appropriata. Le opere di Casorati sembrano volerci dire che il mondo e le cose vivono una vita indipendente da noi, ci sopravvivono e si usurano per leggi proprie. Il nostro non è che un passaggio, e neanche da dominatori.  Uno stato d’animo in cui si condensano il senso della perdita, magari della cacciata da un immaginario paradiso terrestre, e dell’attesa, un’attesa reale e metafisica che si trasforma in profonda inquietudine.

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