Caravaggio dipingeva con l’aiuto delle lucciole e delle mummie

Di Laura Corchia

Nel 1558 Giovan Battista della Porta scrive il Naturalis Magie, un trattato che si occupa di scienza popolare, cosmologia, geologia, ottica, prodotti delle piante, medicine, veleni, cucina, distillazione, colorazione del vetro, smalti e ceramiche, colorazione del vetro, polvere da sparo, crittografia. Le sue argomentazioni non si basavano su ricerche condotte personalmente, ma sullo studio di antichi autori come Aristotele e Teofrasto.

Per far sì che una cosa risplenda nelle tenebre, l’autore propone una “polvere magica” ottenuta dalla distillazione e dall’essiccamento delle lucciole. Qualche decennio più tardi, Caravaggio presterà attenzione proprio a quella ricetta e, spinto dal suo genio tanto ribelle quanto fervido, deciderà di utilizzare la polvere di lucciole per conferire una maggiore luminosità ai suoi dipinti.

Questo è quanto afferma Roberta Lapucci (restauratrice e storica dell’arte) che negli ultimi anni ha condotto delle interessanti ricerche su alcune tele di Caravaggio. Le tele del pittore hanno rivelato tracce di materiali fotosensibili quali arsenico, argento, zolfo, magnesio e iodio. L’interesse del pittore per i fenomeni ottici risale al periodo della sua formazione nel Lombardo-Veneto, territorio particolarmente votato a questi studi, come dimostrano alcuni trattati di Girolamo Cardano e di monsignor Daniele Barbaro. Nel periodo romano, tra un giro di carte nelle taverne di quartiere e una scazzottata con l’avversario di turno, il Merisi trova il tempo di trasformare il suo studio in una sorta di gigante camera ottica: sul soffitto pratica un buco dal quale penetra la luce, attraverso uno specchio concavo e una lente biconvessa, proietta sulla tela l’immagine del soggetto messo in posa.

Per lavorare al buio, Caravaggio utilizza un abbozzo a base di biacca mescolato al distillato di lucciole.

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Tutti i dipinti analizzati presentano tracce di Mercurio, elemento chimico fortemente fotosensibile. L’applicazione di queste sostanze avveniva sia per vaporizzazione sia per miscelazione o applicazione gelatinosa direttamente sulla superficie del dipinto.

Ma le novità riguardanti le tecniche pittoriche del Merisi non si esauriscono al solo impiego del distillato di lucciole. Negli ultimi anni egli cambia modus operandi: la sua condizione di fuggiasco lo porta a scegliere materiali che tendono ad essiccare rapidamente, smette di copiare dal vero e usa modelli già utilizzati in precedenza. L’ultimo Caravaggio fa “largo uso del mummia – precisa Lapucci -, pigmento prodotto dalla combustione della carne animale, miscelata a resine, e usato dai fossori (operai specializzati nella sepoltura) in alcune fasi della conservazione dei cadaveri […] Se nella fase giovanile Merisi utilizzava preparazioni chiare, grigie e ocra, nella fase matura esse divengono rosse e rosso bruno (tre strati – bianco, ocra, scuro – con olio solo alla fine). Nella fase tarda, quella della Sicilia e di Malta, le preparazioni si scuriscono sempre più con terre d’ombra e nero carbone, bitume-mummia e lacche (uno o due strati di mestica e olio sin dal primo livello). Caravaggio vuole che i fondi diventino opachi, che assorbano la luce. Inoltre, le preparazioni della fase tarda – continua Lapucci – forniscono un effetto chiazzato, come se fossero stese in fretta e grossolanamente, provocando porosità e rigidità. Caratteristiche inidonee agli ambienti salmastri, che rendono il dipinto vulnerabile”. 

Le opere dipinte in Sicilia rivelano pochi pentimenti iconografici. Il pittore predilige tele a trama rada e di grande formato. Nella preparazione abbondano nero e bitume-mummia, mentre la tavolozza si riduce ulteriormente alle tinte essenziali: biacca, ocra rossa e gialla, terre brune.

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