Joan Mirò: l’arte di un “innocente col sorriso sulle labbra”

Di Laura Corchia

«Un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni»

(Jacques Prévert)

Forme e segni semplici, talvolta appena accennati talaltra marcati, che lasciano intuire forme e sagome: ora una donna, ora un occhio, il sole, una stella, un corpo, uno strano uccello. E poi i colori brillanti, pieni di luce, campiti in stesure piatte o circondati da uno spesso contorno nero, ed ancora chiazze, gocciolature, impronte. Fantasia, sogno, evasione, impulsività, immediatezza ed evasione concorrono a creare lo stile del pittore catalano Joan Miró (1893-1983).

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Nato a Barcellona, Mirò era figlio di un orologiaio e cominciò a tracciare i primi segni grafici all’età di 8 anni. Su consiglio del padre, intraprese studi commerciali ma in parallelo frequentò lezioni private di disegno. Impiegato in una drogheria, si ammalò di esaurimento nervoso e il lungo periodo di convalescenza decretò la sua completa conversione all’arte.

Rientrato a Barcellona, completò i suoi studi artistici e, qualche anno più tardi, partì alla volta di Parigi, dove entrò in contatto con Picasso e con  il circolo dadaista di Tristan Tzara. Già in questo periodo, in cui disegnava nell’accademia La Grande Chaumière, cominciò a delinearsi il suo stile decisamente originale, influenzato inizialmente dai dadaisti ma in seguito portato verso l’astrazione per l’influsso di poeti e scrittori surrealisti.

Il 12 ottobre 1929 sposò  Pilar Juncosa, dalla quale ebbe una unica figlia di nome María Dolores. Sono questi anni di grandi sperimentazioni non solo in pittura. L’artista si dedicò anche alla ceramica, alla litografia, all’acquaforte, alle raffigurazioni su carta catramata e vetro. Miró fu uno dei più radicali teorici del surrealismo, al punto che André Breton, fondatore di questa corrente artistica, lo descrisse come “il più surrealista di noi tutti”. Tornato nella casa di famiglia, Miró sviluppò uno stile surrealista sempre più marcato; in numerosi scritti e interviste espresse il suo disprezzo per la pittura convenzionale e il desiderio di “ucciderla”,“assassinarla” o “stuprarla” per giungere a nuovi mezzi di espressione. Il suo nuovo linguaggio è fatto di simboli, di sigle, di germinazioni allusive, frutto di una fantasia colta. Nelle sue forme, apparentemente casuali, il pittore recupera i sogni, l’innocenza incontaminata dei fanciulli, la gioiosa e giocosa festività di una infanzia felice. Miró crea un mondo magico, impostato su un equilibrio dinamico, ritmico, pendolare, come in un balletto di gnomi, di marionette altalenanti sospese nello spazio da fili invisibili.

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La prima manifestazione di questo nuovo linguaggio è il Carnevale di Arlecchino (1924-25), una grande scena montata con miriadi di oggetti-gioco, reali, magici, sonori come campanelli di cristallo. «Il racconto», scriverà Bucci, «si snoda, si dipana con questa apparente, gaia rappresentazione che incanta e ipnotizza, dando al tempo stesso un senso vago di malessere e un’ansia dentro, come quello che si prova di fronte ad un paradiso di delizie, dipinto nel XV secolo da Hieronimus Bosch». All’interno di un intrico di forme, si riconosce comunque qualche elemento della realtà (un gatto, un tavolo, un pesce, una scala). Dalla finestra un triangolo nero che emerge simboleggia la Tour Eiffel; un cerchio verde trafitto da una freccia sottile, posto su un tavolo, sta a indicare un mappamondo; ma questi non sono altro che elementi della realtà che si trasformano dando origine alla visione. Tutti gli oggetti sono fluttuanti, quasi come se fossero inventati e popolano questo ampio spazio come se fossero fantasmi.

Joan Miró. Il carnevale di Arlecchino, 1924-25. Olio su tela, 66 x 93 cm . Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, NY, USA
Joan Miró. Il carnevale di Arlecchino, 1924-25. Olio su tela, 66 x 93 cm . Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, NY, USA

Appartiene allo stesso periodo un’opera più legata ad elementi reali: il Cane che abbaia alla luna (1926). Il paesaggio è diviso in due da una linea orizzontale che separa il colore della terra dal nero della notte. Gli oggetti sembrano ritagliati in silhouettes per un collage. In questa fase, i titoli delle opere, quasi dei piccoli versi poetici, sono utili a comprenderne il significato. Poesia e pittura si fondono insieme e danno vita alla creazione di un universo irreale e fantastico, mosso da regole proprie, dove persino la luna si può raggiungere salendo in cima ad una scala che appare poggiata sul vuoto. L’infinita oscurità della notte non fa più paura, per Miró tutto si risolve nell’ironia e nella burla.

Cane che abbaia alla luna 1926 olio su tela, 73 x 92 cm Museum of Art, Philadelphia (Pennsylvania)
Cane che abbaia alla luna 1926 olio su tela, 73 x 92 cm Museum of Art, Philadelphia (Pennsylvania)

Gli anni intorno al 1936 segnarono profondamente il percorso artistico di Miró e si può affermare che la guerra lo attraversò dilaniandolo e lasciando in lui una profonda inquietudine che, tuttavia, si tradusse in un linguaggio poetico e sorprendente, un dialogo con il cielo in ascolto. Iniziò a dipingere la serie delle Costellazioni, frutto di uno spazio interiore in cui non c’era posto per la guerra, per la morte, per le lacrime e per la disperazione. Lo stesso artista affermerà: «Sentivo un profondo desiderio di evasione. Mi rinchiudevo liberamente in me stesso. La notte, la musica e le stelle cominciarono ad avere una parte sempre più importante nei miei quadri». Realizzate nel giro di un anno, queste ventitré opere hanno in comune una musicalità dei segni che nasconde il lungo e metodico processo preparatorio che vi sta dietro. In Cifre e Costellazioni amorose di una donna, Miró voleva portare sotto gli occhi di tutti i veri valori dell’esistenza umana, valori così pieni di colore che nemmeno il conflitto più sanguinoso della storia avrebbe potuto cancellare, nonostante la brutalità e la crudeltà degli uomini: “Ciò che conta non è tanto un’opera,- sosteneva il grande maestro – ma la traiettoria dello spirito che attraversa la totalità della vita, non ciò che si è riusciti a fare durante il suo corso, ma ciò che essa lascerà ad altri in un giorno più o meno lontano“. 

Miró, Costellazione amorosa
Miró, Costellazione amorosa

Gli ultimi trent’anni della sua vita, Miró li trascorse a Palma di Maiorca, dove realizzò in sogno di un grande studio, in cui poter lavorare liberamente e sperimentare nuove tecniche espressive: eccolo, dunque, camminare sulla tela, bucarla, spruzzarvi del colore, lasciarlo gocciolare o stenderlo con le mani.

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Appartiene all’ultima fase del pittore l’opera dal titolo Maggio 1968. Il dipinto, dedicato alle rivolte studentesche nella Parigi del Sessantotto, mostra le tracce di una battaglia subita, con il colore lanciato direttamente sulla tela, impronte di mani alternate a spesse linee nere e ad un cromatismo vivace.

Joan Mirò, maggio1968
Joan Mirò, maggio1968

Dal 1968 fino alla morte, l’artista riversa sulle tele la propria energia ed una evidente volontà di rottura contro tutte le forme d’ordine che appiattiscono e impediscono di vedere. Vitale e mai ripetitivo, è stato sempre dentro ogni opera che ha dipinto, personaggio urlante per la guerra civile, stella nel cielo delle sue costellazioni, ribelle e dissacratore quando nelle ultime opere dà alla sua pittura un ultimo imprevisto strattone. Davvero il cartello ferroviario appeso davanti al suo studio diceva la verità e riassumeva la poetica dell’eterno fanciullo: «Questo treno non fa fermate».

“Un ometto così, con le guance di un colore fra la pesca e lo zafferano, rubizzo, e con certi occhietti vispi, come i bruchi di notte nel buio di una siepe: vestito, pio, di tutto punto, col gilet perfino, cravatta, camicia bianca, i pochi capelli lisciati con cura. Questo è Miró, il pittore forse più rivoluzionario del secolo. Anche più di Picasso. Quando cominciò, cominciò dal nulla; la sua fantasia gli creava un vocabolario semplice fino ad essere primario, ma proprio perché primario, sconvolgente. Era una fantasia lirica, come può essere lirica quella di un bambino che con due sassi e una foglia improvvisa una pietanza. Dava senso alla macchia, ai punti disseminati come stelle di risulta: non si riusciva a collegare questi antefatti di figure che metteva insieme. Eppure stavano insieme: un valore nuovo, dissueto, scaturiva da quell’accozzaglie fluttuanti su un fondo inespresso. Spesso erano ampie superfici abbandonate a se stesse, come lievitanti, come lo specchio di una strada bagnata in cui si incollano le foglie dell’autunno, su cui le luci scivolano senza fare presa. Indimenticabili quadri pieni di un mistero, non era allegoria, non era simbolo: erano niente ed erano pittura. Ed oggi sono i quadri moderni più cari. […] Queste macchie, queste stelle, Miró è come se le dipingesse sulla notte, quasi su una lavagna, o su un cielo pieno di stracci di nuvole, e allora i colori splendono come le lanterne rosse delle interruzioni stradali: di lì non si passerà mai. Né si vuole passare. Ci si arresta, davanti a un quadro di Miró, come su un precipizio; guardare acquista un valore a sé, non per quello che si guarda, ma perché si guarda. Nessuno potrà mai raccontare uno dei suoi quadri. […] Il tempo di Miró non è finito, perché non è mai incominciato: Miró nasce senza nesso, quasi al di fuori della sua persona fisica, come se i suoi quadri si formassero al di fuori di lui, al modo che si legge il pensiero”. (Cesare Brandi, A cena con Miró, 1973).

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