Munch: “così ho sentito il grido dentro di me”

Di Laura Corchia

Uno dei quadri più celebri della modernità è, senza dubbio, Il Grido di Edvard Munch, dipinto nel 1893. Non c’è spiegazione migliore del quadro di quella fornita dallo stesso autore: “Camminavo per strada con due amici. Il sole era al tramonto e cominciavo a sentirmi avvolto da un senso di malinconia. A un tratto il cielo si fece rosso sangue. Mi fermai, appoggian-domi a una staccionata, stanco morto, e fissai le nubi infiammate che gravavano, come sangue e spada, sul fiordo nero-bluastro e sulla città. I miei amici continuaro-no a camminare. Io rimasi inchiodato in piedi, tremante di paura e udii un grido forte e infinito trafiggere la natura”. 

Edvard Munch, Il Grido, 1893, tempera su cartone.


Il dipinto traduce in maniera letterale ciò che l’artista descrive con le sue parole: il fiordo nero-blu, le nubi infiammate, i due amici che passeggiano ignari abbandonando il pittore al suo dramma interiore. Il sentimento di angoscia viene trasferito allo spettatore attraverso i colori e alcune peculiarità della composizione: la creatura posta in primo piano, sbarra gli occhi e porta le mani alle orecchie per non udire un urlo che è al tempo stesso suo e del mondo che lo circonda. Questo essere viene rappresentato senza sesso, senza razza, senza età, ridotto ai minimi termini, dilaniato. Il suo stesso corpo, privo di peso, ondeggia.

Dal punto di vista della biografia dell’artista, il quadro potrebbe rimandare alla perdita precoce della madre e si è anche ipotizzato che il cielo rosso rimandi al sangue della madre morente.

Da un punto di vista più generale, il quadro indica una compenetrazione tra le sensazioni individuali e la natura che ricorda la sinestesia cara a Baudelaire.

Dopo aver dipinto l’Urlo, Munch scrisse nel suo diario alcune pagine per spiegare la sua ispirazione e perché ha dipinto il quadro. Per Munch, come per molti altri artisti, l’arte è un mezzo con cui si possono esprimere le proprie emozioni ed espiare i propri dolori. Ecco un testo tratto dal suo diario: 

Sì, qui in ospedale, in Danimarca, adesso sto benino. Penso che presto potrò tornare a casa, e ricominciare pian pianino i miei giretti lungo il corridoio, tra la pendola e il letto, tra la poltrona e la veranda. Forse potrò riprendere anche a dipingere: senza fretta, senza ansia, una pennellata dopo l’altra. Sì, le ultime crisi sono state proprio brutte. mi pareva di soffocare, il mondo mi girava intorno, quasi non riuscivo a stare in piedi: però ora va meglio, riesco a calmarmi, a guardarmi indietro, a ricordare, qualche volta a rivivere quelle emozioni… Siete mai stati in Norvegia? Lo sapete cosa vuol dire stare sul margine estremo, al Nord dell’Europa? Oh, certo, magari qualcuno di voi è venuto in vacanza, nella bella stagione, nelle lunghissime sere di giugno. Lo so benissimo, ci sono addirittura delle navi da crociera, piene di luci, con tanto di cabine di lusso, che percorrono i fiordi e approdano al porto della mia città, Oslo. Giorni magnifici, non discuto: i turisti sono entusiasti, guardano i fiordi, il sole di mezzanotte, il verde scintillante che scende fino al mare. Ma bisogna coglierli al volo: passano in fretta. Poi, le nuvole, la pioggia, il freddo, l’orizzonte che si fa grigio, la solitudine. Per me, cala l’angoscia. Ho il terrore di rimanere solo. Voi che venite in Norvegia d’estate dite che qui si sta bene, ma io da bambino, a soli cinque anni, ho visto morire mia madre di tubercolosi, poi mia sorella Sofia, quindi, improvvisamente, anche mio padre. Io stesso ho sempre avuto una salute fragile (lo ammetto: col tempo, la vodka e l’acquavite non mi hanno aiutato!), stretto da un’educazione puritana e moralista e le notti del grande Nord, gelido e inospitale. La pittura mi ha aiutato a guardare dentro me stesso, a trasmettere sentimenti ed emozioni […]. Ho letto i testi dei filosofi della Scandinavia e ho sentito parlare delle teorie sulla psiche umana sviluppate dal dottor Freud a Vienna. Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere. […] Mi ricordo benissimo, era l’estate del 1893. Una serata piacevole, con il bel tempo, insieme a due amici all’ora del tramonto. […] Cosa mai avrebbe potuto succedere? Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano color rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. […] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare… Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io. […] L’intera scena sembra irreale, ma vorrei farvi capire come ho vissuto quei momenti. […] Attraverso, l’arte cerco di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo, e se possibile aiutare anche chi osserva le mie opere a capirle, a guardarsi dentro”.

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA