“Giove e Io” di Antonio Allegri detto il Correggio è uno dei più bei dipinti del ’500, tanto da costituire un modello cromatico e formale per il giovane Tiziano. È, assieme al “Noli me tangere” dello stesso autore, uno dei quadri che ho più amato nella mia vita e certamente uno dei più belli del Rinascimento, non solo italiano.
Il soggetto di questo splendido quadro del Correggio è felicemente pagano. La scena divide il mondo della donna da quello del dio. Giove — lo Zeus dei greci, lo Jovis dei latini, il dio tonante che amministra la volontà del cielo — ha assunto le sembianze di una nube per avere contatto col corpo della ninfa Io. La ninfa si avverte baciata, coinvolta e rapita sin nelle profondità più inconsce della sua psiche; ma non vede chi la bacia. È in preda a un raptus.
Giove ha il volto di un ragazzo che sbuca appena dall’oscurità tenebrosa della nube. Mimetismo nel mimetismo, dunque: Giove non ha il volto accecante del dio che egli è; non è potenza manifesta e nemmeno tempesta velata; è solo un ragazzo: un bel ragazzo colto dal desiderio. Ma Io è come cieca; di Giove non può vedere nemmeno questo suo volto di ragazzo. Forse lo immagina, forse lo desidera, ma non può averne cognizione. Sembra il bacio di un fantasma.
Sapiente nella costruzione di un messaggio altamente complesso, il dipinto ci si offre nell’artificio di una strana triangolazione: Giove, la ninfa Io e noi stessi, gli spettatori, siamo coinvolti assieme nello sviluppo di un mistero. Mentre la bella Io immagina e sogna il bacio di un bel ragazzo, che la infiammi di un amore naturale, noi spettatori sappiamo che dietro il velo del suo sogno si cela la presenza del dio, il dio padre, che la va riempiendo di una potenza sovrannaturale.
Nella leggenda classica di Eros e Psiche, Psiche deve vedere Eros per accecarsi di amore per lui. Solo quando lo vede è persa: innamorata alla follia. La ninfa Io, invece, non ha bisogno di vedere per innamorarsi. Non sa nemmeno che colui che la ama è un dio. È terribilmente umana: cieca e indifesa di fronte all’amore. La potenza costituita dall’amore entra nella sua psiche rendendola immensa quanto il dio.
E — particolare fondamentale — per quanto colui che la ama sia un dio, egli non può, non vuole, possederla nel corpo se non attraverso la sua anima. Prima di un corpo da usare, dunque, c’è un’anima da conoscere e influenzare.
La ninfa è a occhi chiusi, immersa nella percezione corporea. L’amore non le attraversa solo il corpo, ma altresì la psiche. A contatto con l’eros, l’io soggettivo trascende se stesso per giungere a qualcosa che è nulla (una nube…), ma che allo stesso tempo è divino, e dunque è tutto, è l’essenza stessa del cosmo introdotta nella singola vita.
Attraverso l’amore agisce, dunque, una potenza ulteriore, una potenza più grande, una potenza oltre-umana. La mente della donna si apre su uno spazio immenso. Grazie all’amore, l’essere che si credeva umano si scopre divino.
Sfrondata anche della mitologia pagana, la scena si apre di fronte ai nostri occhi in una teoria dell’amore profano. Una potenza invisibile si sprigiona da un “altrove” estraneo al corpo e alla mente di una giovane donna, che ne è posseduta. L’amore si insinua dentro di lei come un fulmine lieve e silenzioso, una forza senza parole, né volto, né immagine. Una forza che è esterna e inaccessibile: incontrollabile; e che pure allo stesso tempo sembra nascere dall’interno, nel cuore più profondo della psiche.
Amore è al di fuori d’ogni controllo, spiazza ogni conoscenza di se stessi e introduce a una potenza che l’io non avrebbe mai supposto di possedere.
Questa è la lezione dell’amore pagano che il Rinascimento — epoca di grandi rivoluzioni e grandi personalità — rievoca nella sua piena e pura illuminazione. La donna e l’uomo soggiogati dalla passione non sono padroni della loro vita: lo sono in subordine a potenze che li uniscono agli altri in un regime di sorpresa e di scambio, limitando la legittimità della solitudine, della chiusura, della stasi ed elevando un inno al desiderio e all’immaginazione.