Tesori di Napoli: Il ritratto di Letizia Ramolino Bonaparte di Antonio Canova

di Fabio Strazzullo 

Quella che oggi ammiriamo al Museo Nazionale di Capodimonte è la copia in gesso, dato che l’originale in marmo si trova nella Devonshire Collection a Chatsworth in Inghilterra. L’8 novembre 1808 Canova proponeva, tramite una lettera, al Ministero dell’Interno Giuseppe Zurlo di acquistare la propria statua in gesso ritraente Letizia Ramolino Bonaparte. Lettera nella quale si poneva, tra l’altro, l’accento sul successo ottenuto dall’opera in marmo esposta al Salon di Parigi. Prima che il gesso di Letizia giungesse a Napoli insieme a quello raffigurante Napoleone Bonaparte come Marte Pacificatore (oggi all’Accademia di Belle Arti), si diede vita ad una lunga controversia riguardo la loro più idonea sistemazione. Resta come preziosa documentazione del fatto un corpus di lettere tra Canova e il direttore del Real Museo, il Cavaliere Michele Arditi e tra questi ed il Ministro dell’Interno Giuseppe Zurlo. Entrambe le opere giunsero in città nel 1808 venendo dapprima esposte nei locali delle Regie Scuole delle Artie del Disegno. Nel 1810 il Presidente delle Regie Scuole delle Arti del disegno scrive al Ministro dell’Interno informandolo che le statue di “Madama Letizia” e dell’“Imperatore” sono già “esposte assieme e innalzate sulle loro basi”. Vennero poi relegate nei depositi ad avvenuta Restaurazione borbonica, non lasciando traccia di sé nelle guide e negli interventi per tutto il periodo borbonico. In clima postunitario, insieme alla statua di Ferdinando I come Minerva fu nuovamente relegata nei locali adibiti a deposito del museo. Alla fine del 1896 entrambi i gessi vennero esposti in una sala terrena denominata “Sala del Canova”. Delle tre opere dello scultore di Possagno nel 1957 venne trasferito a Capodimonte solo il ritratto di Letizia Ramolino. Adagiata sulla sedia senza mancare alla sostenutezza” come a gravissima e nobil matrona conviensi la madre di Napoleone è panneggiata con tutto lo studio e la scelta dei vestimenti il più felicemente disposti che l’arte eseguir mai potesse”.

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Il favorevole giudizio di Leopoldo Cicognara rivolto alla particolare soluzione compositiva non aveva trovato concorde una parte della critica che nel marmo, oggi a Chatsworth(Devonshire Collection), aveva notato riferimenti troppo stretti all’Agrippina seduta dei Musei Capitolini. Canova, come si legge in una lettera del 29 novembre 1806 al critico d’arte, Quatremèrede Quincy, aveva respinto alle critiche rivendicando all’opera una sostanziale autonomia ideativa. Il modellino in terracotta conservato nella Gipsoteca di Possagno, probabile prima idea di Chatsworth, richiama nel diverso movimento delle braccia l’Agrippina Farnese del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. I prototipi antichi restano quale spunto innegabile per una libera rilettura che si compiace di un’interpretazione idealizzante e nuova. Esito raggiunto anche tramite raffinate tecniche esecutive, come rivela la recente pulitura del gesso napoletano dove una patinatura a cera modula le superfici con un risultato dalle peculiari valenze astrattive. Nonostante Canova con convinzione difendesse la presenza, nelle singole parti dell’opera, del suo ingegno e della sua invenzione, risulta abbastanza evidente che per l’opera statuaria, almeno nel suo complesso, abbia effettivamente tenuto conto, come sostenuto dalla critica, delle statue romane di epoca imperiale. È anche vero che in numerosi disegni accademici di varie epoche aveva studiato le modelle atteggiandole in queste ed analoghe posizioni. Frequentemente, quindi, disegnava donne sedute in veste classica, occasionalmente su una sedia di tipo KLISMOS. Queste figure derivano dalle donne rappresentate sulle stele greche e i vasi funerari. Dal disegno al bozzetto, dal modellino all’opera compiuta si perde però progressivamente la freschezza e naturalezza iniziali: tuttavia resta testimonianza della profonda conoscenza della materia lavorata, dalla quale riusciva ad ottenere l’effetto che più lo aggradava. La Sala di Capodimonte nota come Sala numero 55, nella quale risulta collocata ed esposta l’opera di Canova presa in analisi, nonostante le esigue dimensioni possiede nell’ambito del percorso museale dell’Appartamento Reale un grande valore strategico. Essa, infatti, funge da snodo tra la precedente stanza dedicata ai fasti del periodo napoleonico e le due successive, l’una destinata a documentare i primi anni della seconda restaurazione borbonica e l’altra riservata all’esposizione delle grandi opere scultoree e pittoriche del neoclassicismo italiano. Risulta quindi una scelta espositiva e allestitiva ponderata quella di posizionare la statua dello scultore a conclusione di un susseguirsi di stanze abbastanza diverse fra loro per periodo storico e tematiche. La scelta si addice a sottolineare l’evoluzione culturale dell’ambiente artistico napoletano che, partendo da una tradizione fortemente radicata nel gusto rococò, persistente per tutto il Settecento, si orienta, con il passaggio del secolo, verso nuove soluzioni del linguaggio neoclassico, in linea con quanto avveniva contestualmente nelle maggiori corti europee. L’opera di Canova diventa quasi un simbolo di questa svolta dei primi anni dell’Ottocento che consegue al mutamento dinastico dai Borbone ai francesi.

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Bibliografia consultata:

Civiltà dell’Ottocento, dai Borbone ai Savoia, catalogo della mostra tenuta a Napoli e Caserta
nel 1997-1998, Electa Napoli, 1997

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