Teatralità, fasto e colore in Paolo Veronese

di Laura Corchia

“Nui pittori […] si pigliamo licentia, che si pigliano i poeti e i matti […]. Se nel quadro li avancia spacio il l’adorno di figure come mi vien commesso et secondo le invenzioni.”

(Paolo Veronese)

Teatralità, fasto e colore rappresentano le tre caratteristiche che più si addicono alla pittura di Paolo Caliari detto il Veronese.

Grande protagonista della stagione del Rinascimento veneziano, Paolo nacque nel 1528 a Verona. La sua personalità artistica fu ampiamente influenzata dall’ambiente culturale della città d’origine che, agli inizi del Cinquecento, rappresentava un vivace e autonomo centro artistico.

A partire dal 1552 iniziò a spostarsi e a Mantova incontrò, tra gli altri, Giulio Romano. In questi anni Veronese nutriva un forte interesse per la classicità, forse per la vicinanza con l’architetto Michele Sanmicheli.

Paolo Veronese, Deposizione nel sepolcro, 1548-1549
Paolo Veronese, Deposizione nel sepolcro, 1548-1549

L’anno successivo giunse a Venezia e subito si aggiudicò un’importantissima commissione: la decorazione, congiuntamente ad altri artisti, delle Sale del Consiglio dei Dieci. Il suo successo fu immediato: arditissimi scorci si accompagnano ad effettivi illusionistici straordinari e al vistuosismo nell’uso del colore, steso senza chiaroscuro. Scrive il Ridolfi nel 1648: “Se il Tintoretto fece conoscere in tante sue fatiche lo sforzo maggiore dell’arte, con l’esprimere le figure sue con erudite forme, pronti atteggiamenti e con gran maniera ed energia di colorire, componendo così spiritosi pensieri, che sono insuperabili, il veronese altresì, per le maestose invenzioni, per la venustà dei soggetti, per la piacevolezza de’ volti, per la varietà de’ sembianti, per le vaghezze e per gl’infiniti allettamenti, che framise nelle opere sue, alle quali diede così elegante simmetria, che comunemente grazia si appella, si tiene che egli abbellisse la pittura d’ogni pompa ed ornamento: sì che posti fra sì dubbie e pellegrine contese, non si può, se non dire, che l’uno fosse il Castore e l’altro il Polluce del cielo della pittura, e che a guisa di novelli Atlanti sostenessero così nobil peso, ambi giovando con i dipinti esempi, dilettando con le varie invenzioni e con gli artifici più accurati dell’arte”. 

Paolo Veronese, Giustiniana Giustiniani con la nutrice, 1560-1561, particolare, Villa Barbaro di Maser, Sala dell’Olimpo
Paolo Veronese, Giustiniana Giustiniani con la nutrice, 1560-1561, particolare, Villa Barbaro di Maser, Sala dell’Olimpo

Fra le commissioni più significative vi è la decorazione di Villa Barbaro a Maser. I fratelli Marcantonio e Daniele Barbaro chiesero al pittore di affrescare la loro villa progettata da Palladio. Il complesso delle decorazioni fu realizzato fra il 1560 e il 1561, subito dopo un viaggio romano. Il tema degli affreschi fu suggerito dal proprietario, l’umanista Daniele, e si riferisce all’armonia delle sfere celesti, in linea con i suoi interessi per l’Astronomia. Le pitture hanno continui riferimenti alle gioie della vita o al piacere del vino. Il tutto vuole esaltare il piacere di vivere in villa da parte dei proprietari, ritratti mentre si sporgono dai balconi o si affacciano da porte più o meno aperte. In questa impresa l’artista si dimostrò capace di adeguarsi agli interni palladiani, senza rinunciare allo sfolgorio dei colori e ad una resa viva e vitale.

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Paolo Veronese, Convito in casa Levi, 1573
Paolo Veronese, Convito in casa Levi, 1573

Anche i numerosi soggetti religiosi rappresentarono per Veronese il pretesto per creare maestosi impianti scenografici. La rielaborazione delle iconografie gli creò però alcuni problemi. Incaricato di eseguire nel 1573 l’Ultima Cena per il refettorio del convento dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, il pittore fu costretto a comparire di fronte al tribunale dell’Inquisizione per giustificare l’interpretazione troppo ardita della scena sacra. A suscitare sconcerto furono i soldati armati alla “todesca”, il buffone con il pappagallo simbolo della lussuria, il servo colto da epistassi, il fatto che sia Pietro e non Cristo a spezzare l’agnello. Grazie alla sua brillante autodifesa, Paolo fu condannato solo a modificare l’immagine a sue spese ma egli, in accordo con i committenti, si limitò solo a modificare il soggetto del dipinto, che divenne Banchetto in casa Levi.

Gli ultimi dieci anni della sua vita furono segnati da una profonda religiosità che si espresse nelle ultime opere. Non c’era più posto per l’invenzione e per la creatività. Si spense nella sua casa il 18 aprile 1588.

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Paolo Veronese (1528 – 1588) Giunone versa doni su Venezia. Palazzo Ducale.
Paolo Veronese (1528 – 1588) Giunone versa doni su Venezia. Palazzo Ducale.

Scrive Adolfo Venturi nel 1929: “L’espressione consueta dell’arte di Paolo è la serenità perfetta, il pieno abbandono all’incanto del colore puro, fresco, primaverile, non offuscato da atmosfere cariche di vapori, ma vibrante alla luce d’un cielo sereno, lavato da piogge, che anche alle ombre infonde trasparenza e tenuità di cristallo. Perciò dalle composizioni di Paolo si sprigiona un senso di letizia, di giovinezza, di calma appagante… Le sue pitture, basate su accordi molteplici di tinte chiare, traggono dai veli d’ombra, trasparenti e luminosi essi stessi nel riverbero dei prossimi colori, un effetto di sfolgorante ricchezza. Il tocco libero e veloce, coi grumi chiari opposti ad altri scuri, incrosta di gemme il tessuto lieve e diafano che modella le immagini e trama l’avorio degli edifici tra i riflessi del cielo glauco e delle nubi rosate”.

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