“Fortunato sarà ugualmente il nostro comune amico celebratissimo Pietro Longhi, pittore insigne, singolarissimo imitatore della natura che, ritrovata una originale maniera di esprimere in tela i caratteri e le passioni degli uomini, accresce prodigiosamente le glorie dell’arte della Pittura, che fiorì sempre nel nostro Paese”.
(Carlo Goldoni)
Pietro Falca, meglio noto con il soprannome di Longhi, nasce a Venezia nel 1702 e nella città lagunare trascorre gran parte della sua esistenza. Il padre è un artigiano argentiere e gli trasmette le prime nozioni artistiche.
Svolge però il vero apprendistato presso la bottega del pittore Antonio Balestra, il quale però gli consiglia di perfezionarsi a Bologna.
Grande osservatore della vita quotidiana, diviene un pittore capace di raccontare la società del tempo con sottigliezza ed acutezza, introducendosi indifferentemente nei salotti della borghesia e nelle osterie di borgata. Scrive Berenson: “… Longhi dipinse per i veneziani appassionati di pittura la loro stessa vita, in tutte le sue fasi quotidiane, domestiche e mondane. Nelle scene riguardanti l’acconciatura e l’abbigliamento della dama, troviamo il pettegolezzo del barbiere imparruccato, le chiacchiere della cameriera; nella scuola di danza, l’amabile suono del violino. Non c’è nessuna nota tragica…Un senso di profonda cortesia di costumi, di grande raffinatezza, insieme con un onnipresente buonumore distingue i dipinti del Longhi da quelli di Hogarth, a volte così spietato e carico di presagi di mutamento”.
I suoi vivaci e realistici bozzetti descrivono il piccolo mondo dorato dell’aristocrazia decadente e quello meschino della borghesia. Chastel lo ha definito il “Molière della pittura”, paragonandolo anche al contemporaneo Carlo Goldoni. Proprio il grande drammaturgo, in un sonetto del 1750, scrisse: “Longhi tu che la mia Musa sorella / chiami del tuo pennel che cerca il vero”.
Ma, contrariamente a Goldoni, Longhi non ha intenti critici, ma guarda la gente venezia con lo stesso affetto con cui un padre giudicherebbe i propri figli. Scrive Argan: “Per la prima volta, col Longhi, i fatti della vita sono veduti e annotati oggettivamente e cioè senza pregiudizi sociali o intenzioni moralistiche. È la vita sociale, come tale, che diventa materia di pittura e non si propone di copiarla né d’interpretarla, ma semplicemente di vederma con mente attiva, cioè con acutezza o arguzia. Perché tra il pittore e l’oggetto si stabilisca questo rapporto d’interesse, bisogna togliere di mezzo ogni convenzione o pregiudizio, a cominciare dall’idea che la pittura celebri o storicizzi l’episodio o il personaggio. Tra il pittore e l’oggetto c’è una contemporaneità che impedisce il giudizio e suscita l’interesse: e l’interesse (non più il pietoso amore o il superbo disprezzo) per il prossimo è la base della nuova etica, per cui l’uomo deve vivere tra i suoi simili attivamente e da pari a pari. Così il Longhi, dipingendo, accentua discretamente, quasi involontariamente, quello che lo interessa di più o prima: il vestito rosa o celeste, elegante, della dama o l’arredo della camera o, magari, il cagnolino. Sono, per lui, i segni rivelatori, che di un aneddoto banale fanno una situazione significativa: e il suo spazio pittorico, non più per principio prospettico o tonale o luministico, è semplicemente lo spazio di una situazione”.
Ne La lezione di geografia, Longhi descrive puntigliosamente l’ambiente e i personaggi. Il salottino dalla pareti rivestite di velluto verde accoglie cinque personaggi: al centro l’allieva, ai lati i maestri e, sullo sfondo, la madre e una serva che portano le tazzine e il bricco contenente il caffè fumante. La giovane fanciulla, a giudicare dall’aria svagata del volto, deve essere attratta più dai piaceri della mondanità che dal mappamondo posato sul tavolino.
Longhi descrive con la stessa accuratezza i luoghi del popolino. Tra osterie e teatrini improvvisati si muovono cialtroni, maschere, nani, venditrici di frittelle o di essenze, lavandaie, burattinai e cavadenti improvvisati.
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