Piero della Francesca: la matematica dell’arte

di Laura Corchia

“Fu eccellentissimo prospettivo et il maggior geometra de’suoi tempi,  sì come appare per li suoi libri”

(R. Alberti, Trattato della nobiltà della pittura, 1585)

Nella storia dell’arte ci sono uomini che con la loro produzione battezzano un’epoca, la rivoluzionano. Piero della Francesca è uno di questi uomini. Nonostante ciò, per lungo tempo la sua figura cadde nell’oblio e fu ricordata solo per i suoi studi matematici e teorici.

La prima menzione che si ha di lui nelle fonti storico-artistiche ci viene dal padre di Raffaello, Giovanni Santi, che lo inserì nella rassegna di personaggi celebri della sua Cronaca rimata.

Nato a Borgo San Sepolcro (oggi Sansepolcro) attorno al 1420, era figlio di un ricco commerciante di tessuti e di una nobildonna umbra. La gioventù trascorsa nella città natale non sembra sia stata determinante per la sua formazione artistica. Un documento di pagamento lo ricorda tra gli allievi di Domenico Veneziano, durante gli anni occorsi per la decorazione del coro di sant’Egidio (1439) a Firenze, città che in quell’epoca era un vero e proprio crogiolo di sperimentazioni tecniche.

Non sappiamo quanto il giovane si fermò nella città toscana. Dalle sue opere emerge uno stile lontano dal linearismo che andavano sperimentando pittori come Paolo Uccello e Andrea del Castagno. Piero sviluppò una pittura che dispiegava grandi campiture cromatiche prospetticamente esposte alla luce, in una sintesi raffinata e algida, immobile e distaccata. Come si può vedere dal Polittico della Misericordia, terminato nel 1460, le figure sono trattate alla stregua di solidi geometrici.

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Piero della Francesca, Polittico della Misericordia (dettaglio), 1445-1462
Piero della Francesca, Polittico della Misericordia (dettaglio), 1445-1462

Un linguaggio maturo emerge nella splendida tavola centinata raffigurante il Battesimo di Cristo (1450). La scena sacra è immersa in una luce zenitale del mezzogiorno, quando i corpi perdono le loro ombre. Le figure monumentali e solide appaiono sospese in un incanto di gesti e di equilibri. Al centro della composizione sono raffigurati Cristo, la Colomba e la mano del Battista. A sinistra tre figure assistono al Sacramento, mentre a destra un bagnante si sfila gli abiti. Piero rende il paesaggio naturale: una tiepida giornata di primavera in cui le piante, come nel sentimento del Battesimo, rinascono a nuova vita. Sullo sfondo sono raffigurati dei personaggi vestiti secondo la foggia orientale, una delle quali ha il braccio sollevato al cielo ad indicare un mistero di luce.

Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, 1450
Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, 1450

Nello stesso 1450, Piero diede il via, con il viaggio a Ferrara, alle peregrinazioni che lo avrebbero condotto presso varie corti d’Italia. Ad Arezzo, realizzò a partire dal 1560 gli affreschi sulla Leggenda della Vera Croce nella chiesa di San Francesco, considerati il suo capolavoro. Il soggetto è ispirato alla Legenda Aurea, una raccolta di vite dei santi e di episodi miracolosi. La leggenda, narrata attraverso dodici episodi, comincia dalla morte di Adamo e si conclude con l’Esaltazione della Vera Croce. Gli affreschi furono realizzati dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra, se 7 diverse pontate e ripartiti in 250 giornate di lavoro. La scelta dell’inconsueto soggetto si spiega con il clima storico e religioso di quegli anni: nel 1453 Costantinopoli era caduta nelle mani dei Turchi. L’avanzata degli “infedeli” provocò in Italia un forte sgomento e da più parti era viva la volontà di intervenire con una crociata. Non a caso, nella scena che narra la Battaglia di Ponte Milvio, Piero raffigurò Costantino con le sembianze dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo, riconoscibile dal copricapo bianco appuntito.

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Piero della Francesca, Leggenda della Vera Croce (dettaglio).
Piero della Francesca, Leggenda della Vera Croce (dettaglio).

A Urbino, presso la corte di Federico da Montefeltro, Piero eseguì diverse opere, tra cui la Flagellazione di Cristo, enigmatica per la presenza in primo piano di tre personaggi in abiti quattrocenteschi mai individuati dagli storici, e il bellissimo doppio ritratto di Federico e della moglie Battista Sforza. In questo dipinto, Piero dimostrò di aver assimilato la lezione fiamminga, ravvisabile nella lenticolare resa dei particolari, nell’uso della luce e nella raffigurazione del paesaggio.

Piero della Francesca, Doppio ritratto dei duchi di Urbino, 1465-72
Piero della Francesca, Doppio ritratto dei duchi di Urbino, 1465-72

L’ultimo ventennio fu segnato da gravi problemi alla vista, che lo costrinsero ad abbandonare la pittura ma non gli studi matematici, sebbene il suo testamento, datato 5 luglio 1487, lo vedeva ancora sano nello spirito, nelle mente e nel corpo”. Morì il 12 ottobre 1492, proprio nel giorno in cui Cristoforo Colombo, alla guida di tre caravelle, scoprì l’America.

Scrive Bernard Berenson in The Central Painters of the Renaissance, (1897):  “L’impersonalità è il dono con cui Piero ci incanta; è la sua virtù più tipica, ed egli la condivide con due soli altri artisti: l’anonimo scultore dei frontoni del Partenone, e Velazquez, che dipinse senza mai tradire neppure un’ombra di sentimento. […] non fu impersonale soltanto nel metodo, come tutti i grandi artisti. Fu, come si dice comunemente, impassibile; cioè poco emotivo nelle sue stesse concezioni. Gli piaceva l’impersonalità, l’assenza di emozioni manifeste, come qualità delle cose. Avendo prescelto, per motivi artistici, tipi virili al più alto grado e, forse per motivi analoghi, un paesaggio della maggiore severità e dignità, combinò e ricombinò tali elementi, e questi soltanto, come esigevano i vari temi: in modo che le figure solenni, le azioni calme, i paesaggi severi esercitassero su di noi il loro massimo potere. Piero non si domanda mai che cosa sentano i suoi personaggi: le loro emozioni non lo riguardano”.

 

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