di Laura Corchia
Attribuita a Pitocrito, la Nike di Samotracia è una scultura in marmo pario di scuola rodia, databile al 200-180 a.C.
Oggi fa bella mostra di sé al Louvre, dove giunse dopo essere stata ritrovata su un’isola dell’Egeo, Samotracia appunto, nel 1863. L’opera rappresentava forse un’offerta commemorativa al santuario dei Grandi Dei, i cabiri, per una vittoria navale ottenuta probabilmente a Rodi nel 190 a.C. La posa della statua riproduce fedelmente l’immagine monetale dei conii di Demetrio Poliorcete.
La statua, rinvenuta priva di testa e gambe, rappresenta la giovane dea alata, figlia di Pallaente, mentre si posa sulla prua di una nave da battaglia. La figura è come scossa da un vento impetuoso e si presenta protesa in avanti, con un panneggio mosso che aderisce strettamente al corpo e mette in risalto l’anatomia. Il gioco chiaroscurale delle pieghette del peplo valorizza il risalto dello slancio e crea effetti di vibrante luminosità. La dea posa con leggerezza il piede destro sulla nave, mentre per il fitto battere delle ali, il petto si protende in avanti e la gamba sinistra rimane indietro. Alcuni frammenti rimasti delle mani e dell’attaccatura delle spalle mostrano che il braccio destro era abbassato, probabilmente a reggere il pennone appoggiato alla stessa spalla, mentre il braccio sinistro era sollevato, con la mano aperta a compiere un gesto di saluto.
I rilevamenti hanno permesso di dimostrare che il monumento era disposto obliquamente in un’esedra rettangolare situata all’estremità di un terrazzo a lato di una collina. La vista normale della statua è dunque sul tre quarti sinistro, come attesta l’importante disparità di completamento tra i due lati della statua – quella del lato diritto è molto rudimentale. Su queste basi, e per mezzo di alcuni modelli (ala diritta, centro sinistro, parte posteriore del busto), una ricostituzione completa è effettuata al Louvre in 1884. La scultura è senza dubbio una delle opere più importanti e sensazionali di tutta la produzione plastica ellenistica. La statua è collocata in punto cruciale del museo; essa si erge maestosa in cima allo scalone progettato da Hector Lefuel, che collega la Galerie d’Apollon e il Salon Carré.
Quasi fosse la Gioconda dell’archeologia, la Nike suscita una fascinazione popolare. Mentre la musa di Leonardo ipnotizza il pubblico attraverso la pienezza del suo enigmatico sorriso, lo charme della divinità greca è nell’assenza del volto. Recentemente l’opera è stata sottoposta ad un accurato restauro che ha portato alla luce lo splendore delle sfumature di marmo e ha permesso di svelare nuove informazioni sul concetto e sulla decorazione del monumento. Ma non è il primo intervento di cui abbiamo notizia. Nel 1875, l’architetto della missione austriaca impegnata negli scavi a Samotracia disegna alcuni blocchi di marmo grigio che Champoiseau aveva lasciato in situ e ne deduce che si tratta della base – in forma di prua di nave – della dea alata. La conferma di tale intuizione arriva dall’analisi di alcune monete datate al regno di Demetrio Poliorcete, sulle quali compare una Vittoria in piedi su un’imbarcazione. Nel 1879, anche i frammenti della prua e le lastre che ne costituivano lo zoccolo pervengono al museo parigino, dove si procede a un primo assemblaggio del monumento: alcune parti del corpo della figura femminile (ad esempio l’ala destra) vengono reintegrate in gesso mentre si sceglie di non rifare piedi, braccia e testa.
Per ricomporre il drappeggio – infranto in ben centodiciotto pezzi – il conservatore Adrien de Longpérier si rivolge all’italiano Enrico Pennelli, già noto per i minuziosi restauri della collezione d’arte del Marchese Campana. La statua (alta 2,75 metri) viene posata direttamente sulla base a forma di nave, i cui blocchi erano stati precedentemente uniti col cemento. Nel 1884 le operazioni possono dirsi concluse e la Nike conquista la sommità della scalinata Darou che fino all’inaugurazione della nota Piramide di vetro nel 1989, ha costituito il maestoso ingresso al Louvre. Una vera e propria «messa in scena», giocata sulla grandeur della composizione scultorea edello spazio architettonico che l’accoglie, il quale trasforma la dea «volante» in un idolo da venerare. Il «fanatismo», tuttavia, può avere conseguenze negative. I circa sette milioni di visitatori annui che si concentrano in massa attorno al «simulacro», provocano inevitabili effetti di degrado. Il cospicuo finanziamento ottenuto tramite il crowdfunding e le elargizioni della Nippon Television Holdings, la Fimalac e la Bank of America Merryll Lynch, hanno così dato il via a un restauro necessario e glamour. La Nike sarà riesposta a metà luglio in versione «sbiancata».
La patina leggermente marrone con la quale l’abbiamo ammirata finora non era, infatti, il colore originario del marmo di Paros in cui è eseguita, ma la reazione di un prodotto applicato sulla superficie nel XIX secolo. I lavori intrapresi dal settembre 2013 sotto l’egida di una commissione internazionale, hanno suscitato entusiasmo ed emozione negli studiosi coinvolti, i primi – dalla seconda guerra mondiale, quando l’opera venne imbragata e nascosta per salvarla da bombardamenti e saccheggi – ad avere il privilegio di osservarla da vicino. Tale prossimità ha consentito di eseguire un rilievo 3D, la ricostruzione «filologica» della nave blocco per blocco e l’aggiunta di frammenti conservati nei magazzini del Louvre o provenienti dai nuovi scavi greci e americani a Samotracia.
All’utilizzo dei raggi ultravioletti si deve invece la scoperta di tracce di colore sul corpo della dea: blu egizio sulle ali (forse per creare un effetto ombra), blu o viola sul bordo dello spesso mantello che declina sul fianco destro, svelando il nudo della gamba sinistra.L’analisi di una mano depositata al Louvre nel 1965 – il cui palmo è curiosamente proprietà dello stato greco mentre le dita appartengono al Kunsthistorisches Museum di Vienna – ha permesso, inoltre, di escludere che la «messaggera» brandisse una lunga tromba. Della Nike non si trascurano neppure i dettagli relativi al contesto archeologico in cui fu rinvenuta. Interpretata al principio come elemento di una fontana monumentale, l’assenza di tracce di deterioramento dovute a intemperie sul marmo, farebbe credere che la statua ex-voto o fu tempestivamente distrutta e poi interrata, o sopravvisse all’interno di una struttura coperta.
La sua datazione si colloca nella prima metà del II secolo a.C. ma non conosciamo il nome dello scultore. La base in forma di nave proviene certamente da un atelier di Rodi specializzato nella fabbricazione di trofei navali e non è escluso che anche la figura femminile fu realizzata nelle regioni del Dodecaneso o dell’Asia Minore. Il suo drappeggio parrebbe ispirato – oltre che alle sinuose forme delle dee che decorano il fregio del Partenone – alle virtuosità della Gigantomachia dell’Altare di Pergamo. Ma più che le ipotesi storiche, è il potere dell’immaginazione – l’unico che può davvero avvicinarci al mondo antico dandoci l’illusione di carpirne i misteri – ad aver decretato il successo di una opera d’arte mutila, convertendola in una vera e propria «icona». Persino Marinetti, nel Manifesto del Futurismo, ne fece il simbolo della classicità, da contrapporre però alla moderna bellezza di un’«automobile ruggente». Chissà che il rinnovato splendore della Nike non segni invece il ritorno all’«immobilità pensosa» del bello.
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