L’occhio del Quattrocento. La percezione delle opere d’arte nel Rinascimento

Di Laura Corchia

Un oggetto riflette un disegno di luce sull’occhio. La luce entra nell’occhio attraverso la pupilla, viene raccolta dal cristallino e proiettata sulla retina. Le cellule delle fibre nervose di cui è composta la retina filtrano le luci ai coni, ricettori sensibili a luce e colore che portano le informazioni al cervello. Il cervello interpreta i dati ricevuti dai coni in base alle capacità innate che gli derivano dall’esperienza. Ognuno di noi ha avuto un’esperienza diversa ed è dunque in grado di interpretare i dati in maniera leggermente diversa. Davanti ad una immagine, dunque, ogni individuo può fornire diverse interpretazioni sulla base della propria esperienza personale. Poniamo il caso di un cerchio sovrapposto ad un rettangolo interrotto. Alcuni possono dire che sono di fronte ad una cosa rotonda sovrapposta a un paio di proiezioni allungate a forma di L. Un uomo abituato all’architettura italiana del XV secolo può facilmente desumere che il cerchio è un edificio circolare e che le ali rettangolari sono delle sale. Ma un cinese poteva desumere una corte centrale circolare.

Un disegno o un dipinto sono essenzialmente frutto di convenzioni rappresentative. Anche il semplice fatto di disporre dei colori su un piano bidimensionale per rappresentare qualcosa di tridimensionale è una convenzione rappresentativa.

Se consideriamo, ad esempio, l’Annunciazione di Piero della Francesca, la comprensione del dipinto si basa sul riconoscimento di una convenzione rappresentativa imperniata sul fatto che il pittore dispone i colori su un piano bidimensionale per riferirsi a qualcosa che è tridimensionale. Il pittore, come dice Boccaccio, deve sforzarsi di far sembrare la figura simile a quella prodotta dalla natura e dunque a rendere uno spazio tridimensionale e ingannare in questo modo l’occhio dell’osservatore.

L’interpretazione di un’opera è di carattere soggettivo e dipende dalle informazioni che la mente ha a disposizione. Se un uomo è capace di distinguere i rapporti proporzionali, di ridurre le forme semplici a composizioni di forme complesse, darà una lettura dell’Annunciazione diversa rispetto ad un altro uomo privo di tali capacità.

Quanto alla storia rappresentata, se uno non sapesse quella dell’Annunciazione sarebbe difficile distinguere cosa sta accadendo nel quadro di Piero. Piero, nel rappresentare la sua scena, faceva assegnamento sul fatto che il fruitore riconoscesse il soggetto. Nel quadro è rappresentata una fase particolare della storia: il momento in cui Maria prova riserbo nei confronti dell’Angelo. La gente del Quattrocento era, infatti, rispetto a noi, in grado di distinguere diverse fasi dell’Annunciazione.

Trovandosi di fronte a un’opera la gente del Rinascimento si impegnava a fondo nell’esprimere giudizi attraverso l’utilizzo di termini adatti. In realtà, la gente per cui il pittore lavorava non possedeva un lessico ampio per descrivere la qualità dei quadri.

Anche all’interno delle classi dei committenti esistevano delle differenze: un medico abituato ad osservare i rapporti esistenti tra le membra di un corpo umano era in grado di notare la proporzione anche nei dipinti. In generale, possiamo dire che l’uomo del Quattrocento, per poter esprimere giudizi sulla pittura, attingeva a quelle capacità che sono più apprezzate nella società in cui vive.

La maggior parte dei dipinti del XV secolo sono dipinti religiosi e, dal punto di vista della Chiesa, dovevano avere tre scopi*, riassunti nel Catholicon di Giovanni da Genova e in un sermone del domenicano fra Michele da Carcano.

Un dipinto doveva raccontare una storia in modo chiaro per la gente semplice, in modo avvincente e indimenticabile e utilizzando appieno tutte le emozioni che la vista può suscitare. Spesso, però, si correva il rischio di incorrere in episodi di idolatria e la Chiesa si rendeva conto che alcuni dipinti erano eseguiti secondo concezioni errate: soggetti eretici, apocrifi erano oltretutto trattati in modo frivolo e indecoroso. Gentile da Fabriano, ad esempio, inserì nella sua Adorazione dei Magi scimmie, cani e costumi elaborati, tutti elementi difficilmente accettabili perché considerati superflui e vani. Ma che tipo di pittura il pubblico religioso avrebbe trovato lucida, indimenticabile e toccante?

Il pubblico che si rivolgeva al pittore per l’esecuzione di immagini sacre compiva spesso degli esercizi spirituali per i quali era richiesta una notevole capacità di visualizzare interiormente gli episodi fondamentali della vita di Cristo e di Maria. Ogni pittore doveva fare dunque i conti con un pubblico abituato a crearsi delle immagini interiori. Nel Zardino de Oration stampato a Venezia nel 1454 e indirizzato a giovani fanciulli, possiamo comprendere l’importanza che le rappresentazioni interiori avevano nella preghiera: il testo invitava ad ambientare le storie nella propria città e ad utilizzare come personaggi i propri conoscenti, in modo tale da memorizzare meglio le vicende sacre. Dal momento che ciascuno aveva delle immagini interiori precostituite, il pittore evitava di caratterizzare nei particolari le persone e i luoghi. Il Perugino, ad esempio, dipingeva delle persone molto comuni. Su questa base, ciascun fruitore poteva imporre il suo dettaglio personale. Il Tributo di Masaccio o la Trasfigurazione di Bellini derivano in gran parte dalla stessa situazione. I personaggi e i luoghi di Bellini sono molto generici.

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Gli esercizi spirituali erano solitamente descritti nei sermoni. Predicatore e dipinto facevano parte dell’apparato di una chiesa e ciascuno teneva conto dell’altro. Soppressi dal V Concilio Laterano, i predicatori popolari infiammavano spesso gli animi, ma erano degli insostituibili insegnanti. Fra Roberto Caracciolo da Lecce era uno di questi. Egli giunse a strapparsi l’abito di dosso e a mostrare l’armatura da crociato che indossava di sotto. Le festività religiose che si susseguivano durante l’anno rappresentavano un’occasione  per toccare molti dei temi trattati dai pittori e per risvegliare sentimenti di pietà.

Beato Angelico, Annunciazione.
Beato Angelico, Annunciazione.

Fra Roberto, in un sermone sull’Annunciazione, distingue tre misteri principali:

  1. La “Angelica Missione”;
  2. L’ “Angelica Salutatione”;
  3. L’ “Angelica Confabulatione”

Ognuno di essi viene discusso in cinque capitoli principali: conturbatione, cogitatione, interrogatione, humiliatione, meritatione.

La maggior parte delle Annunciazioni del XV secolo sono identificabili come Annunciazioni di Conturbatione o Humiliatione, o di Cogitatione e/o Interrogatione. Le annunciazioni del Beato Angelico appartengono al genere dell’Humiliatione, mentre Botticelli preferiva la “Conturbatione”.

L’elemento essenziale delle storie era la figura umana. La figura del Cristo lasciava poco spazio all’immaginazione in quanto, nel XV secolo, si era convinti di possedere una sua descrizione. Secondo quanto si ricava in un rapporto inviato da Lentulo governatore della Giudea al Senato romano, Cristo aveva media statura, capelli color nocciola lisci fino alle orecchie e ricci a toccare le spalle. Il viso non aveva rughe e macchie, la barba era scompartita e aveva lo stesso colore dei capelli. Non fu mai visto ridere o piangere.

Molti dipinti rispettano questo modello. L’aspetto della Vergine era più controverso: alcuni sostenevano che avesse un colorito scuro, mentre altri erano convinti che avesse una pelle chiara.

I santi venivano identificati dagli elementi fisici che li caratterizzavano e ogni pittore godeva di maggior libertà nel rappresentarli.

Secondo Leonardo Da Vinci, la fisiognomica era una falsa scienza e il pittore doveva limitarsi a osservare i segni lasciati sul volto dalle passioni. Nel dipinto che raffigura una Scena dall’Odissea del Pinturicchio non siamo in grado di stabilire i veri sentimenti dei protagonisti e, di conseguenza, non è possibile dire con certezza se si tratta di Telemaco che informa Penelope della sua ricerca di Ulisse o se piuttosto sono raffigurati i Proci che sorprendono Penelope nell’atto di disfare la tela.

La stessa preoccupazione per l’espressione fisica si riscontra nel trattato sulla pittura di Leon Battista Alberti e nel trattato sulla danza di Guglielmo Ebreo.

Leonardo dedica molte pagine a sottolineare la necessità di descrivere puntualmente i moti dell’animo ma, nello stesso tempo, trova molta difficoltà a descrivere a parole gli specifici movimenti a cui si riferisce.

Alcune fonti quattrocentesche descrivono il significato dei gesti. Non si tratta di fonti attendibili ma sono utili ad avanzare delle ipotesi. Secondo Leonardo, per dipingere i gesti, il pittore poteva attingere a due fonti: gli oratori e i muti. Una descrizione di alcuni gesti si può ricavare dai predicatori e dai monaci votati al silenzio. Questi ultimi, in particolare, hanno lasciato degli elenchi del linguaggio dei gesti elaborati per essere usati durante i periodi di osservanza del silenzio. Una mezza dozzina di questi gesti si ritrovano nei dipinti e sono utili per dare una lettura più precisa di essi. Ne La cacciata dei progenitori dal Paradiso Terrestre di Masaccio, ad esempio, Adamo esprime vergogna, mentre Eva prova dolore.

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Tuttavia, è possibile anche che la gente del Quattrocento potesse anche sbagliarsi sul significato di un gesto o di un movimento. San Bernardino da Siena lamentava che i pittori nella Natività mostrassero san Giuseppe con il mento appoggiato alla mano, per indicare malinconia. Questo gesto, infatti, può indicare anche meditazione.

Una fonte più autorevole ci viene invece dai predicatori, veri e propri attori dotati di capacità mimiche. Un predicatore italiano poteva predicare anche fuori dai confini nazionali e riusciva a farsi capire proprio grazie ai suoi gesti.

I pittori inserivano nel dipinto le espressioni fisiche del sentimento secondo lo stile usato dai predicatori. Tale processo lo si può osservare nell’Incoronazione della Vergine di Beato Angelico. I Sei predicatori raffigurati in basso hanno le mani alzate perché stanno parlando di cose sacre (“quando parli di argomenti santi o di fede tieni le mani alzate”).  I gesti erano utili anche per diversificare i santi, come si vede  nell’affresco del Perugino raffigurante La consegna delle chiavi.

Il gesto laico non era molto diverso dal gesto devoto, anche se esso non veniva insegnato nei libri, era più personale e cambiava a seconda della moda. Un gesto per indicare invito e espressione di benvenuto può essere studiato in una xilografia del 1493. L’oste che vi è raffigurato ha il palmo della mano leggermente alzato e le dita aperte un po’ a ventaglio. Questo gesto si ritrova in numerosi dipinti: Un giovane dinanzi al consesso delle arti di Botticelli, nel gesto di Ludovico Gonzaga dipinto da Mantegna nella Camera degli Sposi, nel gruppo di donne che tentano sant’Antonio del Pinturicchio, nella Primavera del Botticelli, dove Venere ci invita con la mano nel suo regno.

Il pittore solitamente, nel raffigurare un gruppo, poneva in relazione le figure attraverso una diversificazione dei gesti.  In alcune città italiane, si usava mettere in scena dei drammi sacri.

Nel 1439, un vescovo russo assistette a Firenze alle rappresentazioni dell’Annunciazione e dell’Ascensione. Dalla sua descrizione si può evincere che venivano utilizzati elaborati meccanismi: gli attori erano sospesi a dei fili, si utilizzavano dischi rotanti e luci artificiali e i personaggi andavano su e giù su nuvole di legno.

Nelle rappresentazioni vi era spesso una figura corale, il festaiuolo, spesso impersonato da un angelo, che restava sulla scena durante lo svolgimento dello spettacolo e fungeva da tramite tra il pubblico e le vicende rappresentate. Queste figure venivano usate anche dal pittore e sono persino consigliate dall’Alberti nel suo trattato.

Durante le rappresentazioni, le figure non lasciavano il palcoscenico, ma sedevano ai lati di esso in attesa di recitare la loro parte. Anche questo aspetto si ritrova nei dipinti: ne La Vergine e il Bambino con i santi di Filippo Lippi, i santi assistono seduti in attesa del loro turno per alzarsi e recitare.

Il pittore sapeva che il suo pubblico aveva elementi per riconoscere le figure rappresentate nel dipinto. Il fruitore, infatti, era abituato ad osservare le stesse scene nei dipinti e anche interiormente, nella meditazione privata o nei sermoni dei predicatori. Tuttavia, le figure dipinte dai pittori conservavano sempre un certo ritegno. Nel Battesimo di Cristo di Piero della Francesca, sono raffigurati tre angeli e uno di essi contempla proprio noi, svolgendo dunque la funzione del festaiuolo. In tal modo, siamo invitati ad assistere alla scena e diventiamo noi stessi attori.

Un’attività del XV secolo abbastanza simile alla composizione dei gruppi è la bassa danza. Questa disciplina era divisa in cinque Parti: “aere”, “maniera”, “misura”, “misura del tempo”, “memoria” e su di essa erano stati scritti dei veri trattati. Il pubblico doveva essere in grado di interpretare schemi e figure e, di conseguenza, era abituato anche a leggere i movimenti dei gruppi dipinti dai pittori.

L’uso di riunire i colori in serie simboliche risale al Medioevo: Sant’Antonio e altri elaborarono un codice teologico: Bianco: purezza; rosso: carità; giallo-oro: carità; nero: umiltà. Alberti e altri fornirono un codice relativo ai quattro elementi: rosso: fuoco; blu: aria; verde: acqua; grigio: terra.

La preziosità delle tinte era un mezzo usato dal pittore per porre qualcosa in evidenza. Quando Gherardo Starnina utilizzava l’oltremare da due fiorini l’oncia per la Vergine e l’oltremare da un fiorino per il resto del dipinto, sottolineava una distinzione teologica.

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A Firenze e nelle altre città, un ragazzo riceveva due gradi di istruzione. A partire dall’età di sei o sette anni, frequentava una scuola elementare o botteghuzza. Poi proseguiva gli studi in una scuola secondaria, l’abbaco, dove studiava dei libri più impegnativi e concentrava i suoi sforzi sulla matematica. Pochi entravano poi all’università per diventare avvocato. La maggior parte della borghesia si fermava agli studi secondari. Dai libri che sono giunti fino a noi, possiamo vedere che si studiava una matematica commerciale e alcune nozioni si ritrovano nella  pittura del Quattrocento.

Una di queste è la misurazione. Importante era il calcolo del volume di ogni contenitore , dal momento che le merci giungevano in contenitori che non avevano misure standard.

Piero della Francesca è autore di un manuale di matematica per mercanti, intitolato De abaco. È importante notare che molti pittori erano passati attraverso l’istruzione secondaria superiore e il loro pubblico si serviva di queste stesse nozioni per esprimere giudizi sui dipinti. Quasi ogni manuale usava un padiglione come esercizio per calcolare le aree di superficie e quando un pittore usava un padiglione nella sua pittura invitava il suo pubblico a misurare.  Per l’uomo di commercio, tutto era riducibile alle figure geometriche e le rappresentazioni altro non erano se non una combinazione di corpi geometrici calcolabili.  Nella Cacciata dei progenitori dal Paradiso Terrestre di Masaccio si può vedere Adamo composto da cilindri. Nella Trinità, Maria è un massiccio tronco di cono.

Nelle raffigurazioni del Pisanello, vediamo delle figure in atteggiamento di torsione. Si tratta di un’altra convenzione rappresentativa.

Importante per la formazione del bambino era lo studio dell’aritmetica e della geometria. Al centro dell’aritmetica commerciale c’era la proporzione.

Lo strumento aritmetico universale usato da molti mercanti italiani colti era la Regola del tre (anche nota come Regola Aurea o Chiave del Mercante). Con questa regola si trattavano i problemi di proporzione che riguardavano l’allevamento, il baratto, l’alterazione delle merci e così via. Tutti questi calcoli erano essenziali perché, ad esempio, ogni città rinascimentale aveva la sua valuta, i suoi pesi e le sue misure.

Gli stessi problemi di proporzione riguardavano la pittura. La gente del Quattrocento conosceva forse meno matematica di noi, ma la applicava più spesso, negli affari importanti, come in giochi e indovinelli. Di conseguenza, di fronte a uno stimolo visivo come può essere un quadro, essi erano portati a ridurre le forme complesse ad una combinazione di soliti geometrici regolari. La pratica a calcolare la proporzione , ad analizzare il volume e la superficie dei corpi, portava la gente ad una maggiore sensibilità nei confronti dei dipinti che portavano i segni di tali processi. Il pittore, di conseguenza, si divertiva ad inserirle nelle opere e il mecenate pagava proprio questa profusione di abilità.

Ci sono due generi di letteratura devota del Quattrocento che forniscono degli accenni su come proporzione, prospettiva e colore possano arricchire la percezione dei dipinti.

Il De deliciis sensibilibus paradisi di Bartolomeo Rimbertino distingue tre tipi di progressi rispetto alla nostra esperienza visiva di esseri umani: una maggior bellezza delle cose viste, una maggior acutezza nella vista, un’infinita varietà di oggetti da osservare. La maggior bellezza sta in tre particolari: luce più intensa, colore più chiaro, e miglior proporzione.

Nel Quattrocento era abbastanza in voga un libro dal titolo Libro del occhio morale, scritto da Piero di Limoges. L’autore invita il lettore  a prendere un certo numero di fenomeni ottici abbastanza comuni, come ad esempio un bastone immerso per metà nell’acqua che sembra piegato, per trarne delle considerazioni morali. Egli le chiama “Tredici maravigliose cose circa la vision de l’occhio, le quali contengono spirituale informatione”. L’undicesima meraviglia si riferisce alla prospettiva usata nei dipinti.

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RIFERIMENTO BIBLIOGRAFICO:

M. Baxandall, “Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento”, 2001, Einaudi, Torino.

 

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