La Melencholia I di Albrecht Dürer: un enigma ancora da risolvere

di Giulia Fornaciari

Una figura angelica, seduta ai piedi di una costruzione di cui non vediamo l’estremità superiore, suggerita solo da una scala. Quasi come se si fosse appena lasciata cadere sul terreno e si stesse posizionando in maniera più comoda, appoggia il viso in ombra sulla mano sinistra stretta a pugno, mentre l’altra tiene distrattamente un compasso ed è posata su un libro chiuso: è il volto, adombrato e corrucciato, della Melencholia I di Albrecht Dürer.
Poche opere d’arte nella storia possono vantarsi di essere state studiate tanto quanto questa incisione, nel tentativo di interpretare il significato originale che l’artista, di cultura raffinatissima, aveva voluto darle al momento di realizzarla nel 1514 (la data è visibile insieme al “logo” di Dürer in basso a destra, incisa sullo scalino) in coppia al San Girolamo nello studio. Negli anni, molti studiosi hanno tentato di dare un senso logico a ogni elemento presente nell’opera: dal numero romano I presente nel titolo, che parrebbe suggerire il primo elemento di una serie; agli oggetti disseminati a terra, che Maurizio Calvesi riconosce come gli strumenti tipici dell’alchimista alla ricerca della pietra filosofale; al quadrato magico incastonato nel muro che rimanda al 34, numero sacro al pianeta Giove; allo strano poliedro, chiamato appunto “poliedro di Dürer”, riconducibile alla sezione aurea e agli studi del matematico Luca Pacioli, che l’artista aveva incontrato di persona a Bologna fra il 1505 e il 1507; all’astro che irradia la sua luce sullo specchio d’acqua e la città dello sfondo, identificato come un pianeta; al motivo dell’appunto che lo stesso Dürer lascia a proposito delle chiavi appese alla cintura dell’angelo e alla borsa, ricordando il loro significato rispettivamente di potere e ricchezza.

Melencolia I, opera di Albrecht Dürer
Una cosa è certa, però: moltissime delle interpretazioni riguardo gli oggetti e il significato complessivo dell’opera rimandano al temperamento malinconico, considerato il più negativo fra i quattro presi in considerazione dalla teoria degli umori alla base della medicina dell’epoca – collerico, flemmatico, sanguigno, malinconico. Fra i malinconici erano ascrivibili tutte le persone ombrose, solitarie e più portate alla riflessione e allo studio, ma anche i pazzi, i pigri e i profeti: sin da Platone e Aristotele, nascere con un’abbondanza di bile nera (melaina kolè, da cui malinconia) significava essere destinati alla grandezza o alla pazzia, in un continuo e pericoloso oscillare fra i due estremi.
Questa dualità diviene, durante il Rinascimento, la condizione necessaria del genio: la pubblicazione nel 1489 del De vita triplici di Marsilio Ficino associa definitivamente l’essere “nati sotto Saturno” agli artisti, ai poeti, ai letterati e a tutti coloro che sembravano essere in grado di toccare con mano un piano ulteriore dell’esistenza umana, per trarne capolavori indimenticabili.
È a partire dalle corrispondenze con il De vita triplici di Ficino che Erwin Panofsky compie l’interpretazione ad oggi più accreditata della Melencholia I, raccogliendo tutti gli elementi dell’incisione sotto un’unica luce: l’incapacità di arrivare oltre un determinato stadio di coscienza e la necessità dell’ispirazione dall’alto. Al tempo di Dürer circolava infatti il pensiero del  Cornelius Agrippa di Nettesheim: il filosofo esoterico tedesco rielaborava le teorie di Ficino aggiungendo che l’influsso delle forze cosmiche, e in questo caso di Saturno, si traduce nella öbere Eingiessungen, l’ispirazione dall’alto che in una delle sue forme porta l’uomo ad essere un grande artista o artigiano. Il numero romano posto accanto al titolo nel cartiglio retto dal pipistrello indicherebbe quindi, forse anche per amor di sintesi, l’accezione della malinconia riferita agli artisti.
La figura angelica si è quindi lasciata cadere in preda allo sconforto perché non in grado, per il momento, di oltrepassare le proprie capacità, di andare oltre ciò che per sua natura è in grado di fare. I raggi dell’astro sullo sfondo sembrano quindi sulla via per raggiungerla, magari per donarle la coscienza superiore che le permetterà di elevare la propria mente e trovare la soluzione al problema di cui si sta occupando in quel momento: la realizzazione del poliedro perfetto che giace abbandonato poco lontano – Panofsky infatti ricorda che Dürer considerava la padronanza della geometria come uno dei requisiti fondamentali per essere un grande artista.
La Melencholia I diventa quindi una dichiarazione di dignità artistica: Dürer sembra voler sostenere l’idea che la creatività e il talento siano qualcosa di appartenente a un altro mondo, a una realtà che è in grado di manifestarsi grazie alla mano e alle menti dei grandi uomini. Tuttavia, molti elementi non sono ancora del tutto chiari perfino con questa interpretazione e l’incisione è ancora oggetto di letture che cercano di spiegare molti elementi della composizione, della posa e del significato generale; questioni che, ad un contemporaneo colto di Dürer dovevano apparire quasi immediate ma che oggi, a causa della distanza storica, abbiamo perso.
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BIBLIOGRAFIA CONSULTATA PER LA REDAZIONE DI QUESTO ARTICOLO:
  • Erwin Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, Milano, Feltrinelli, 1979
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