Giovanni Fattori, un solitario cantore della Maremma toscana

di Laura Corchia

Di carattere semplice e schivo, Giovanni Fattori fu il maggior pittore italiano dell’Ottocento.

Nato a Livorno il 6 settembre 1825, partecipa ai moti rivoluzionari del ’48 e, a partire dagli anni Cinquanta, entra in contatto con il gruppo di artisti che frequentano il Caffè Michelangelo, un vivace luogo di ritrovo sito in via Larga a Firenze.

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L’adesione di Fattori alla Corrente dei Macchiaioli è veloce e spontanea e il suo stile pittorico muta in modo quasi repentino. Ostile alla pittura storico-celebrativa di stampo accademico, Fattori comincia a narrare la realtà secondo il “puro verismo”, obbedendo allo “stimolo acuto di fare studi di animali e paesaggio” nel tentativo di “mettere sulla tela tutte le sofferenze fisiche e morali di tutto quello che disgraziatamente accade”.

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Secondo Fattori, il verismo pittorico è alla base di ogni tipo di manifestazione artistica e i soggetti prediletti di questo modo di narrare la vita sono il lavoro degli uomini e gli avvenimenti militari. Tuttavia, l’artista non si concentra sulle grandi battaglie storiche, ma preferisce indagare situazioni più quotidiane e meno note e, proprio per questo, più dolorose e reali. I suoi soldati non sono eroici combattenti ma contadini strappati al lavoro dei campi, alle case e ai loro affetti e mandati a morire senza nemmeno comprendere il perché della loro lotta. Allo stesso modo, Fattori narra anche la vita agricola del tempo, concentrandosi nella descrizione della terra brulla e inaridita dal sole, dei corpi dei contadini tesi in sforzi disumani per trascinare i carri di buoi. Dal canto loro, gli animali partecipano al dolore dell’uomo, vittime della fatica di guadagnarsi da vivere con il sudore della propria fronte.

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Del meticoloso studio dal vero di Fattori ci restano centinaia di schizzi, con gli animali, l’uomo e la natura ripresi in decine di pose diverse.

Le opere degli ultimi anni mostrano l’accentuarsi della nota pessimistica. Il tono drammatico investe le scene della vita maremmana e i suoi paesaggi, dove gli alberi sono quasi piegati da venti ostili ed impetuosi.  Opere come Lo scoppio del cassone e lo Staffato costituiscono amare riflessioni sulla vita e sulla morte che lo colse il 30 agosto 1908.

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Scrive Ugo Proietti nel 1925: “Nella fama che da morto lo avvolge e già lo solleva alla gloria, sembra che della vita di lui non si sappia altro che la sua onorata povertà. […] Ma di quanto nella biografia di questo artista può aiutarci a spiegare l’arte sua e le successive maniere, pochi si occupano. Sono stati, fra gli altri, dimenticati due fatti capitali. Il primo è che Giovanni Fattori non ha mai creduto d’essere un puro paesista, un pittore cioè di vuoti paesaggi, ma sì un pittore di figura il quale adoperava i mille studi e studietti di paese, adesso fortuna dei mercanti e invidia dei raccoglitori, soltanto per comporre gli sfondi convenienti ai suoi quadri di butteri, di bifolchi, di boscaiole, di buoi, di puledri, di soldati, d’accampamenti, di manovre, di battaglie. Il secondo fatto è che Giovanni Fattori fino ai trentacinque o trentasei anni ha dipinto poco e fiacco, e i più dei quadri, quadretti, bozzetti e appunti che oggi si espongono, si lodano, si comprano e si ricomprano, sono tutti dipinti verso i quarant’anni e dopo, dal 1861 o ’65. Il caso è più unico che raro nella storia dell’arte, ma ci aiuta a capire quel che di meditato, riposato e maturo è nelle sue opere migliori, anche nelle più antiche, ingenuamente credute giovanili e primaverili” (Ugo Ojetti, Ritratti dipinti da Giovanni Fattori, in “Dedalo”, 1925)”.

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