Giovanni Cappelli: al di là della pittura

di Mario Gambatesa

Milano 1950: per le strade, colme di passanti che passeggiano tra gli odori invadenti delle caffetterie del centro, si avvertono gli echi di una città viva e pulsante di nuove azioni.  Nei vicoli di quelle strade si intravede un uomo: alta statura, schiena ricurva e l’anima che risuona una vecchia musica, quella di chi è in grado di sognare ad occhi aperti. Proprio in quel sogno di rinascita, che Giovanni Cappelli (1923-1994) pone uno dei più grandi pilastri della cultura artistica italiana del secondo Novecento.

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L’appartenenza pittorica di espressione, fin dall’inizio dovuta al suo apprendistato, svolto presso l’Accademia di nudo frequentata a Bologna, è la figurazione. I suoi stati d’animo, le sue idee, le sue visioni del mondo e la sua fantasia, diventano subito immagini che trasporta inevitabilmente con forza e audacia sulla tela, con un segno pittorico incisivo  che resterà tale, anche dopo aver trasfigurato il suo linguaggio figurativo in una poetica esistenzialista, dovuta ad un suo viaggio a Roma e all’incontro con gli artisti del Portonaccio (Vespignani, Guerreschi, Ferroni). La sua  visione delle cose fornisce meticolosamente, gli elementi base per capire e  carpire il significato, ma soprattutto  per identificare con estrema cura e trasparenza, la condizione dell’uomo, i suoi stati d’animo, il dolore, la paura, lo sgomento: queste, per Cappelli, sono tutte sensazioni che possono essere dipinte e quindi rese immortali attraverso la rappresentazione stessa dell’uomo e quindi i suoi gesti, il suo volto, le sue mani.

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Come si può notare nell’opera “Domenica in chiesa” del 1959, oppure “Due figure” del 1962, o ancora “Fatto di cronaca” del 1975: l’immagine si esalta ed è l’esaltazione stessa, che rompe e ricompone gli spazi e i colori, gli oggetti e i soggetti dei suoi quadri. Negli anni, il realismo pittorico si estinguerà lasciando spazio ad un immagine più espressionista: la sua eredità pittorica sarà influenzata, dai  volti consumati e lacerati di Vespignani e i tratti freddi e malinconici dei personaggi di Alberto Sughi.
I suoi fantasmi sono lì, dove vivono i suoi personaggi  immersi nella nebbia, ai margini desolanti delle tetre periferie di Milano, negli infiniti orizzonti di spiagge deserte che si concludono in mare, nei  volti di città senza miracoli, negli occhi assenti di uomini inghiottiti dalla loro solitudine, inermi, accovacciati in piccole stanze, invase da una coltre di luce spettrale, carica di oscure violenze assai pregresse. La sua pittura consentirà quindi, di analizzare con poco sforzo e senza resa, la condizione reale dell’uomo, gli avvenimenti che egli stesso crea e vive sulla sua pelle:  sarà proprio questo, l’inizio e la fine, di un lungo viaggio introspettivo carico di emozioni e malinconia, dove, con grande caparbietà pittorica, Giovanni Cappelli consegnerà al grande pubblico, l’emblema di una grande pittura e allo stesso tempo di una grande responsabilità.

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