Edvard Munch: l’arte come “Urlo” contro la vita

di Laura Corchia

“L’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama al soccorso, invoca lo spirito: è l’espressionismo.”

(Hermann Bahr)

Tutta l’opera di Edvard Munch nasce ai margini di un’esistenza caratterizzata, fin dal principio, da un profondo disagio interiore.

Nato nel 1863 in una fattoria nei pressi di Oslo, ebbe un’infanzia difficile e segnata da dolori che gli lacerarono il cuore. Come egli stesso sostenne, “nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora […] Così vissi coi morti”. A cinque anni, vide infatti morire la madre di tubercolosi e, a quattordici, a lasciarlo fu la sorella.

Il padre, un medico ossessionato dalla religione, era serio e introverso, ma non lo ostacolò mai nella sua naturale inclinazione verso l’arte. Fin dagli esordi, Munch non fece altro che scrivere e riscrivere la sua vita, scandagliando a fondo il suo animo alla ricerca della sua intima e dolorosa sofferenza.

“Per diversi anni fui quasi pazzo, poi trovai me stesso fissando dritto nella spaventosa faccia della follia”.

Edvard Munch, La bambina malata, 1885-1886
Edvard Munch, La bambina malata, 1885-1886

Morte, dolore, fallimenti e tragedie furono descritte dal pittore con pennellate fluide e linee morbide, di derivazione liberty. I temi ricorrenti nelle sue opere si caratterizzano per un accentuato patetismo: “tempo di cuscini, tempo dei letti e dei malati e delle trapunte”, come egli stesso definì la sua pittura. Ne La bambina malata, dipinta tra il 1885 e il 1886, il pittore condensa un frammento della sua vita passata. Seduto di fronte alla tela, torna lo spettro della sorella morente. La raffigura con i capelli rossi, distesa in un letto, con le spalle appoggiate a un enorme cuscino bianco. Accanto, inginocchiata, vi è una figura femminile dal capo reclinato. I due personaggi sono in silenzio. La fanciulla spalanca un occhio vitreo e allucinato presagio di sventura, e la sua mano sinistra è accarezzata da quelle della donna. Il dolore per l’imminente morte si avverte nell’intreccio delle mani, rese con pochi colpi di colore. Quel gesto carico di commozione rappresenta il centro esatto del dipinto.

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“Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto La bambina malata. […] Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finchè la morte venne a prenderli.”

Edvard Munch, La madre morta e la bambina, 1897-1899
Edvard Munch, La madre morta e la bambina, 1897-1899

Il tema della morte torna poi in un altro dipinto dal titolo La madre morta e la bambina. Sebbene la protagonista sia questa volta la madre, come suggerirebbe il titolo, lo sguardo dell’osservatore non può fare a meno di essere catturato da quella bambina posta in primo piano, con l’abitino rosso e le mani portate alle orecchio, forse per isolarsi da quel dramma famigliare e non sentire i lamenti delle figure che si muovono sommessamente nella stanza. La donna distesa sotto le coperte, con gli occhi chiusi, è appena tratteggiata e la linea bianca del letto funge da stacco tra i due piani.

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Edvard Munch, Il bacio, 1897
Edvard Munch, Il bacio, 1897

Persino quando tratta temi amorosi, come ne Il bacio, il pennello del pittore non smette di tracciare segni che rimandano all’angoscia. La mancata felicità si avverte dai toni cubi, dagli abiti neri dei due protagonisti, dalla completa assenza di luce. Sulla sinistra, oltre una tenda, un guizzo di luce fa penetrare i colori vivaci del mondo esterno e l’azzurro del cielo. La superficie pittorica è graffiata, suggerendo l’uso da parte di Munch del manico del pennello. Diedi anni dopo, Gustav Klimt diede la propria versione di un incontro amoroso che nulla ha a che vedere con quello raffigurato dal pittore svedese. I protagonisti di Klimt sono avvolti dall’oro e hanno sguardi rapiti dall’estasi. Non vi è fusione tra i due volti. Proprio questo dettaglio porta a comprendere che amore, per Munch, significa rinunciare alla propria identità, distruggere la propria anima.

Torna in mente così una frase scritta dal poeta Giuseppe Ungaretti:

“Le nostre malattie si fondono

e come portati via si rimane”.

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