Edvard Much: “I miei quadri sono i miei diari”

di Jessica Chiafari

Sono i tormenti i veri protagonisti della vita di un artista che ha saputo rendere al meglio questo turbinio di emozioni. Basti pensare al suo più celebre dipinto, “L’Urlo” o “Il grido” che si voglia, realizzato nel 1893 dove sembra esplodere la sua angoscia, il paradigma simbolico del destino dell’uomo: “La mia pittura è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. – disse il pittore – È dunque una forma di egoismo, ma spero sempre di riuscire, grazie a lei, ad aiutare gli altri a vedere chiaro.

Così descriveva il suo operato, immerso nell’individualità e nell’angoscia esistenziale dell’uomo. Ripercorrendo, infatti, le tappe principali della vita di Munch, ci rendiamo immediatamente conto di come eventi drammatici abbiamo avuto un’incidenza non indifferente sul suo percorso formativo. Dalla scomparsa della madre, seguita da quella della sorella primogenita Sophie, segneranno profondamente il destino e la fantasia di Edvard che ricorderà quei terribili istanti della sua infanzia con queste parole: “Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora […]. Così vissi coi morti”. I morti che finiscono per esaurirlo, derubarlo dei momenti migliori, che lo modellano e lo invitano a godere di una luce di disperazione infinita. Il malessere, protagonista indiscusso delle sue riflessioni sul mondo, emerge in modo prepotente nel dipinto emblema della sua produzione artistica: Il grido (1893). È egli stesso il protagonista del dipinto e, in quanto tale, lo descrive così: “Camminavo lungo la strada con due amici (che distinguiamo chiaramente nello sfondo) – il sole tramontava – il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue – mi fermai – appoggiai stanco morto a un parapetto – sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – i miei amici continuavano a camminare e io tremavo di paura – e mi sentii un grande urlo infinito che attraversava la natura”. Lo stesso urlo di un uomo abbandonato da Dio che risuona chiaramente nella cultura tedesca, dal romanticismo fino all’esistenzialismo di Heidegger, e in quello dei francesi Sartre e Camus.

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