Dentro l’opera: ‘La Tempesta’ di Giorgione

Di Laura Corchia

Intorno al 1530, il nobile veneziano Marcantonio Michiel annotava, nelle sue Notizie d’opere di disegno, di aver visto nel palazzo di Gabriele Vendramin “el paeseto in tela cun la cingana et soldato” di mano di Giorgione. Circa il soggetto dipinto, non è fornita nessuna ulteriore informazione e, a partire dal secolo scorso, è diventato oggetto di interminabili dispute circa l’interpretazione.

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L’opera, che doveva affascinare già i contemporanei dell’artista per l’iconografia inconsueta e per la mirabile compresenza di elementi naturali e architettonici, è probabilmente una delle prime “senza soggetto”, una delle “poesie” della pittura italiana, un “capriccio” veneziano realizzato con due secoli di anticipo.

Tale punto di vista, è confermato da una radiografia, fatta eseguire nel 1939, che mostrava la presenza di una bagnante al posto del soldato. Il restauratore Pelliccioli rilevava inoltre che Giorgione, dopo aver abbozzato la figura della donna a sinistra, decise di spostarla a destra e di raffigurare un uomo appoggiato ad un’asta sulla parte opposta.

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Il soggetto è un complicato rebus che non ha ancora trovato una soddisfacente soluzione e forse il suo significato era accessibile a pochi o al solo committente. Così la tela è stata vista di volta in volta come allegoria mitologica (Giove e Io); classica (una scena delle Baccanti di Euripide); come simbologia del Vecchio Testamento (Ritrovamento di Mosè); o come allegria di stampo pastorale (le tre figure sarebbero la Fortuna, la Fortezza e la Carità). Altre ipotesi hanno avanzato un rimando ai Quattro Elementi, all’unione tra Cielo e Terra, ad una scena della Hypnerotomachia Poliphili.

Recentemente, Salvatore Settis ha identificato un importatissimo precedente in un rilievo dell’Amadeo sulla facciata della cappella Colleoni di Bergamo, parte di una sequenza di Storie di Adamo ed Eva. Sulle sfondo di alberi e casamenti, Eva è seduta a terra e allatta il piccolo Caino, mentre a sinistra Adamo è appoggiato ad una vanga. La figura dell’Eterno irrompe e annuncia il loro destino di fatica e di morte. Nel dipinto, Dio Padre è sostituito dal fulmine che squarcia le nubi cariche di pioggia. La “tempesta” diviene così metafora della condizione umana.

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Il paesaggio può essere idealmente diviso in due parti: in primo piano un bosco lussureggiante accoglie le figure, mentre sulle sfondo probabili case del contado veneto (sulla facciata di una di esse è stato riconosciuto lo stemma della famiglia Carraresi) e una serie di edifici che, man mano che si perdono sullo sfondo, sono poco caratterizzati e hanno un’intonazione bluastra. Gli elementi architettonici si ritrovano anche in primissimo piano: due mezze colonne su un piedistallo e un arco trionfale cieco. Probabilmente, Giorgione ha preso a modello Durer ma, soprattutto, la visione sfumata di Leonardo. I rapporti tra quest’ultimo e il pittore veneto sono ben documentati e Vasari ci dice che “Aveva avuto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo, molto fumizzate e cacciate, come si è detto, terribilmente di scuro; e questa maniera gli piacque tanto, che, mentre visse, sempre andò dietro a quella, e nel colorito ad olio la imitò grandemente”. Del resto, copie  dei disegni di Leonardo giravano di mano in mano in quel periodo. In essi, vi sono accurati schizzi di campagne, alberi, fiumi, insenature, monti e colline. Giorgione aveva anche presenti i paesaggi eseguiti da Giovanni Bellini, presso la bottega del quale si era formato.

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Al di là degli aspetti emblematici e simbolici, lodevole è la resa degli effetti atmosferici: il cielo carico di nubi, di elettricità e di umidità, il bagliore della saetta che illumina il paesaggio.

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Probabilmente, Gabriele Vendramin fece dipingere l’opera per il suo studiolo e il suo testamento (aggiunta del 15 marzo 1522) chiarisce in quanto conto egli tenesse la raccolta privata di dipinti del suo camerino: “molte picture a ogio et a guazo in tavole et tele, tute de man de excelentissimi homeni, da pretio et da farne gran conto”. Si raccomandò quindi agli eredi di non alienare né smembrare per alcuna ragione la raccolta.

 

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