Dalla raccolta al Museo pubblico. Nascita degli odierni luoghi espositivi

Di Laura Corchia

Nel 1618 Federico Borromeo inaugurò a Milano l’Accademia Ambrosiana, un’istituzione volta a promuovere un tipo di pittura e scultura in linea con i dettami del Concilio di Trento. Egli donò la sua biblioteca e la sua ricchissima collezione alla neonata Accademia e ne espone gli obiettivi in un’operetta in latino, il Musaeum. In questo catalogo, oltre ad illustrare le opere esposte, esponeva le ragioni che avevano spinto un uomo di chiesa all’acquisto e al possesso di oggetti artistici così preziosi. Il cardinale sosteneva che la sua raccolta era tesa e indirizzata al recupero e alla conservazione delle grandi opere del passato.

La creazione di un’istituzione pubblica costituiva a quei tempi un episodio isolato, seppur preceduto da altri casi come la donazione capitolina, gli Uffizi e l’Antiquario Grimani.

Nel Settecento si fece invece largo la consapevolezza di rendere pubbliche le collezioni private e i musei dinastici. Al pari di teatri, biblioteche e accademie, i musei costituivano un importante strumento di formazione intellettuale dei nuovi ceti borghesi e di diffusione della cultura.

In questo secolo avvenne dunque il passaggio irreversibile dal collezionismo privato alla gestione pubblica del patrimonio storico artistico e, di conseguenza, mutarono anche i criteri di allestimento e di esposizione. Essi, infatti, non rispondevano più alle esigenze e ai gusti del singolo, ma tendevano ad acquisire un valore didattico universale.

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Contemporaneamente, i musei divennero sempre più settoriali, come dimostrano il Museo Novarese, galleria iconografica dei concittadini illustri, e il Museo epigrafico di Verona che, per volere del suo ordinatore Scipione Maffei, raccoglieva iscrizione ed epigrafi, considerate per la prima volta importanti documenti del passato.

Il Maffei pubblicò inoltre la Notizia del nuovo museo di iscrizioni, primo saggio di letteratura museologica di respiro europeo, che illustra i criteri di esposizione e classificazione del materiale presente nel museo. Le epigrafi erano suddivise in classi (greche, etrusche, latine, cristiane, medievali e spurie), in serie progressive e in sequenze storico cronologiche e vennero inserite lungo le pareti di un portico dorico, progettato in stile Neoclassico in funzione dei pezzi esposti. Il museo maffeiano preannunciava le teorie esposte poco dopo dall’ Encyclopedie di Diderot nei riguardi del museo, inteso come struttura pubblica in grado di offrire vantaggi a tutti i cittadini, di qualsivoglia condizione, che desiderino istruirsi.

Al fine di assicurare la completa fruizione al pubblico, il figlio del naturalista Antonio Vallisnieri donò la raccolta del padre al museo di storia naturale dell’Università di Padova.

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Anna Ludovica dè Medici attraverso il Patto di Famiglia donò l’immenso patrimonio alla nuova dinastia dei Lorena con l’obbligo che esso resti in perpetuo uso della città.

Nel 1734 venne inaugurato il Museo Capitolino che, oltre a custodire reperti utili allo studio dell’archeologia, era volto ad impedire la dispersione e l’emigrazione all’estero dei pezzi.

Anche a Bologna il papato attuò una analoga politica di protezione dei beni culturali. Dell’esigenza della creazione di un museo rappresentativo della città si fece portavoce prima Gian Ludovico Bianconi in una lettera indirizzata a Filippo Hercolani e poi lo stesso papa Benedetto XIV, come ci riferisce il Crespi nelle sue Vite dei pittori bolognesi.

Anche le collezioni private si sentirono investite da un’analoga funzione didattico-scientifica come la raccolta di Filippo Farsetti a Padova che fu base fondamentale per la formazione di pittori come il Canova. Il conte Giacomo Carrara di Bergamo, invece, oltre ad aprire al pubblico la sua raccolta privata, istituì una scuola di pittura.

Antonio Canova, Le tre Grazie
Antonio Canova, Le tre Grazie

Nella seconda metà del Settecento, la Galleria degli Uffizi, per opera del Lanzi, si trasformò da immensa Wunderkammer in un moderno museo, secondo un ordinamento più razionale che si sostituiva alla meraviglia seicentesca. Nella Reale galleria di Firenze accresciuta e riordinata, il Lanzi ci descrive il riassetto degli Uffizi decretando l’ irreversibile frattura fra arte e scienza. Si allontanarono così dalla galleria tutti gli strumenti scientifici e i reperti naturali che costituiranno il nucleo del Museo della Specola, voluto da Pietro Leopoldo nel 1775.

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Con la rivoluzione francese e il regime napoleonico si affermò per la prima volta il carattere integralmente pubblico del patrimonio storico-artistico.

I beni sottratti alla chiesa e ai paesi conquistati, prima fra tutte l’Italia, confluirono nel Louvre. Questa politica non mancò di suscitare le proteste degli intellettuali, primo fra tutti dello storico dell’arte francese De Quincy che, in una serie di lettere indirizzate al generale Miranda, esprime la sua condanna nei confronti dei disastrosi effetti delle requisizioni napoleoniche. I musei sorti dalle requisizioni napoleoniche si caratterizzavano per la mancanza di un legame con il passato e con la storia locale e si connotavano come muti templi dell’arte sempre più distanti dal pubblico comune.

Nel 900 l’obiettivo del Museo cambiò nuovamente: non più solo conservazione, ma comunicazione visiva a tutti i livelli e totale coinvolgimento dei visitatori.

 

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