Il compianto su Cristo morto: un dramma in cielo e in terra

di Selenia De Michele

“Giuseppe di Arimatea, discepolo di Cristo, chiese a Pilato , di nascosto, per timore dei Giudei, di prendere il corpo di Cristo. Pilato lo concesse ed egli andò portando con sè Nicodemo. Presero il corpo di Gesù, lo avvolsero in bende intrise di oli aromatici e lo deposero in un sepolcro nuovo, posto in un giardino vicino al luogo della crocifissione.” – Giovanni 19, 38-42.

Il “Compianto su Cristo morto” è una delle scene della vita di Cristo dipinte lungo le pareti della Cappella degli Scrovegni. La decorazione dell’intero ciclo pittorico fu affidata da Enrico Scrovegni a Giotto, maestro fiorentino di chiara fama, già noto a Padova per aver lavorato alla perduta decorazione a fresco della basilica francescana di Sant’Antonio. Il ciclo degli affreschi di Padova rappresenta il momento più alto dell’inizio della pittura d’Occidente in cui si esplica tutta la grandiosità e la novità dell’arte di Giotto. L’immagine sacra è ormai scesa sulla terra e il dolore è indagato in tutte le sue possibili espressioni. Tensioni e moti interiori pervadono tutti i personaggi e rimbalzano dall’uno all’altro ripercuotendosi anche nella zona superiore dell’affresco dove dieci angeli in volo raccolgono ed amplificano il dolore umano unendo cielo e terra in un compianto cosmico.

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La scena, che segue “l’andata al calvario” e la “Crocifissione” occupa, quasi al centro della parete di sinistra, il terzo riquadro, una collocazione di grande visibilità che doveva creare un vero e proprio choc sul pubblico. La scena ha ormai abbandonato ogni rigidità bizantina per calarsi nel mondo umano, dei sentimenti e delle emozioni, imponendosi come un modello per tutta la pittura del Trecento. La scelta del tema manifesta la predilezione dell’artista per le immagini coinvolgenti capaci di commuovere lo spettatore e di suscitarne la reazione emozionale. Il soggetto d’altronde è molto raro in questo momento: infatti la sequenza dei cicli cristologici prevedeva a seguire la Crocifissione scene come la “Deposizione dalla croce” o la “Deposizione nel sepolcro”.

 

Tuttavia il soggetto trova precedenti immediati nei cicli pittorici della basilica di Assisi e in particolar modo in uno degli affreschi neotestamentari dipinti sulle pareti della campata d’ingresso della Basilica Superiore, da alcuni attribuiti ad un Giotto giovanissimo, che sembra essere addirittura il modello dell’invenzione padovana ma solo per quanto riguarda l’impianto generale della scena. La scena è ambientata in un paesaggio spoglio e desolato, definito sul fondo dal piano inclinato di una parete rocciosa coronata da un albero secco. Davanti ad essa, come in proscenio teatrale, i seguaci di Cristo sono raccolti intorno al corpo del Messia adagiato tra le braccia di alcuni astanti: la Vergine che ne sostiene il busto in grembo, avvolgendolo con le braccia e accostando il suo volto a quello del Figlio; la Maddalena che ne accarezza i piedi piagati; una delle Marie che gli solleva le mani.

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Sono proprio i volti accostati della Vergine e di Cristo il fulcro sentimentale della scena. Ad essi sono indirizzati gli sguardi, le espressioni e i gesti dolenti dei personaggi che sono distribuiti tutto intorno per gruppi: a sinistra della Vergine un compatto raggruppamento di donne piangenti; al centro, accanto alla Maddalena una tragica sequenza di tre dolenti culminante nella maestosa figura di San Giovanni che apre la bocca e allarga le braccia a misurare la profondità dello spazio e ad esprimere lo strazio della sua sofferenza con un gesto tolto dal repertorio della scultura classica. E’ interessante notare che San Giovanni allargando le braccia compone, rispetto all’obliqua della roccia, il simbolo della croce. La posa al centro della scena drammatica viene quindi a saldare il dolore umano a quello celeste e al tempo stesso a confortare l’umana speranza di salvezza rappresentata dalla croce come simbolo del sacrificio supremo. All’estrema destra le due figure di Giuseppe d’Arimatea e di Nicodemo. In primissimo piano infine due personaggi ammantati, seduti di spalle, si offrono come il più diretto tramite visivo per far entrare lo spettatore nel dipinto e coinvolgerlo nel dramma. Tra queste la donna avvolta nel manto verde appare come una massa chiusa, ripiegata su se stessa, intenta a contenere un dolore che pesa come un macigno. Maria di Cleofa, in piedi è invece protesa incredula verso il corpo esanime e ne sorregge le mani.
Si tratta in definitiva di una ben orchestrata rappresentazione sacra la cui forza comunicativa risiede in quella che è stata definita “poetica degli sguardi”, caratteristica dell’intero ciclo padovano, che trova il suo culmine nei due volti di Maria e del Cristo vicini. L’intima ansia che lega la madre al figlio morto, il protendersi di colei che gli ha dato la vita per accoglierlo e trattenerlo in un caldo abbraccio, sono immortali in questo istante drammatico che sembra protrarsi nel tempo all’infinito. L’espressione di Cristo è di straordinario realismo: pietosa e commovente appare la mano della donna che regge il capo di Gesù. Con i capelli sciolti, l’espressione alterata dal pianto, Maria Maddalena si colloca ai piedi di Gesù in posizione defilata ed umile con un lamento che prorompe dalla bocca semi aperta.

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PIC1629OLo stesso repertorio ritorna, intensificato, nei dieci angeli che con scorci audacissimi scendono dal cielo a manifestare la proiezione in una dimensione cosmica del dolore per la morte del Salvatore. Il dolore degli angeli è indagato tanto quanto quello degli uomini: in particolare un piccolo angelo al centro della schiera celeste si inarca all’indietro colpito da un dolore cui partecipa anche fisicamente. Gli angeli volano come impazziti dal dolore, eseguendo spirali turbinose le cui linee di forza convergono in basso sulla scena che si consuma a terra. L’orchestrazione del volo, i diversi scorci figurativi di cui alcuni estremamente audaci, mostrano come ogni personaggio per Giotto sia importante e concorra allo svolgimento della narrazione. Il naturalismo del Maestro si evidenzia soprattutto nei piccoli dettagli come il portare le mani nei capelli in un gesto universalmente inteso come di disperazione.

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Un altro angelo congiunge le mani ai lati del volto in un atteggiamento di meraviglia ed incredulità insieme mentre un altro ancora prorompe in pianto nell’espressione più classica e liberatoria del dolore degli uomini.
Tuttavia questo dramma consumato in cielo e in terra non è ancora sufficiente per Giotto che lo proietta anche sulla natura che muore con Cristo. Questo è il significato che va attribuito alla nuda parete di roccia che attraversa il fondo segnata dalla sola presenza di un albero privo di fronde, cioè morto, così come è morto il Messia.

Per quanto lo schema iconografico del dipinto di Padova rimandi all’esempio assisiate le variazioni introdotte sono tali e di tale natura da rendere inconfrontabili le due opere. Ad Assisi il gruppo raccolto intorno a Cristo è posto in primo piano al centro mentre gli altri dolenti occupano il secondo piano riuniti in gruppi di tre o due privi però di legami vicendevoli di modo che la composizione risulta frammentata in una serie di episodi più o meno autonomi. Qui invece ogni gruppo ed ogni personaggio funziona come parte di un tutto conservando allo stesso tempo la propria individualità e partecipando di un insieme unitariamente orchestrato il cui fulcro generatore sono, come già detto, i due volti accostati di Cristo e della Vergine, posti nell’angolo sinistro verso il quale convergono le principali linee di forza della figurazione. In particolare vi convergono quelle che definiscono il piano inclinato della parete di roccia, quelle delle braccia e del corpo del Messia e quella verticale del manto verde della donna alle spalle della Vergine, quindi aprendo a semicerchio i personaggi che stanno intorno al corpo di modo da isolare i due volti. Anche gli sguardi dei personaggi convergono verso i due volti e le loro espressioni manifestano la reazione individuale al terribile avvenimento. Una reazione individuale che però misura tutti i gradi della sofferenza e che è calibrata in relazione alla vicinanza fisica e alla relazione personale di ognuno con il Cristo. L’affresco non ha una struttura simmetrica come accade invece nella maggior parte delle figurazioni presenti nella cappella.

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Qui Giotto sperimenta un impianto dal taglio diagonale reso ancora più evidente dal forte impatto visivo della parete di roccia del fondo. Ad essa fanno da controparte la verticalità delle due donne in piedi a sinistra e di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo a destra riportando l’attenzione verso il centro occupato da piano inclinato che si viene a creare grazie al disporsi a scaletta dei tre personaggi centrali i quali misurano la profondità dello spazio proiettando la parete di fondo ben più lontano di quanto non possa sembrare ad un primo sguardo. Da ciò nasce l’equilibrio estremamente classico dell’immagine sostenuto anche dal tessuto cromatico tutto giocato sull’accostamento di colori primari e complementari (rossi, blu, gialli, verdi e violetti) distribuiti sulla superficie secondo un raffinato sistema di rispondenze e richiami a distanza che asseconda e conferma la calcolata disposizione delle figure in un organismo di straordinaria coerenza ed armonia.

 

BIBLIOGRAFIA CONSULTATA PER LA REDAZIONE DI QUESTO ARTICOLO:
Giotto – i classici dell’arte. Rizzoli – Skira (Corriere della sera)  G. Vigorelli; pag. 144;
Cento Dipinti: GIOTTO – Compianto su Cristo Morto. Rizzoli  F. Zeri e M. Dolcetta; pagg. 2; 6 – 13;
Compianto sul Cristo morto in i colori del tempo. Gruppo San Paolo imi – G. A. Vergani ; pagg. 24 – 30

 

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