Bernini, scultore del profondo

di Laura Corchia

Gian Lorenzo Bernini nasce a Napoli nel 1598, ma in tenerissima età si trasferisce a Roma, per vivere nello studio del padre Pietro, scultore fiorentino dal quale apprenderà la propria tecnica. Il padre non smetteva mai di mostrare al piccolo Gian Lorenzo le opere dei grandi maestri fiorentini, le statue e le architetture greche e romane, contribuendo a determinare un gusto compositivo del tutto personale e un talento fuori dal comune. I contemporanei non capirono immediatamente la portata delle opere di Bernini, dal momento che il suo stile venne percepito come troppo carico di elementi espressivi.

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Secondo le fonti, lo scultore passava intere giornate a misurare, studiare e ritrarre quanto di eccellente era contenuto nelle Stanze Vaticane. Quei capolavori saranno per lo scultore fonte di ispirazione, ma mai ritrarrà quelle forme in modo stanco e ripetitivo. I marmi scolpiti dal grande maestro si caratterizzano per un intenso studio psicologico. I suoi personaggi sono in grado di parlare, urlare, gioire, soffrire e di instaurare con lo spettatore un livello di comunicazione mai raggiunto prima.

Gian Lorenzo Bernini non ha lasciato testimonianza autografa delle sue convinzioni estetiche. Nel suo caso si può parlare di “teoria orale”, poiché per la sua stessa facondia e per un certo atteggiamento pedagogico trasmise ugualmente le sue idee, dettagliatamente riferite da vari testimoni. Le sue riflessioni sul valore dell’arte, sull’importanza dei modelli, sulla lezione dell’antico e del naturale sostanziano le biografie di Filippo Baldinucci e di Domenico Bernini, cui si aggiunge la testimonianza che Paul Fréart de Chantelou trascrisse nel suo Journal du voyage, documentando il soggiorno francese del cavaliere. 
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Per conoscere la tecnica scultorea di Bernini, l’unico trattato a noi utile è quello scritto da Orfeo BoselliOsservazioni sulla scoltura antica. 
Bernini era solito eseguire piccoli bozzetti e modelli manipolando l’argilla a mano con una stecca dentata in osso per un’altezza variabile dai 30 ai 45 cm. Nella serie eseguita per gli Angeli di Castel Sant’Angelo è stata osservata sul retro una linea verticale incisa che può essere correlata alla descrizione di Boselli sul riporto delle misure dal modelletto al blocco lapideo mediante la costruzione di una scala proporzionale divisa in sedici «particelle, in modo da trasferire senza errore i vari spatij». In sostanza il bozzetto veniva misurato con una scala calibrata suddivisa in 16 parti incise sul retro, e un’analoga suddivisione era disegnata sul blocco da scolpire, tracciando sui quattro lati una griglia quadrettata sulle quali trasferire proporzionalmente le dimensioni del bozzetto.
Analoga procedura è adottata sia per le statue che per i bassorilievi, osservando che «il modello così aggiustato è come un quadro graticolato per ben copiarlo, come usano li pittori negli originali di valore». Pur consapevole che le piccole dimensioni del modello creavano sempre una «certa difficoltà a trasportarli dal modello piccolo nel marmo, e massime quando il sasso è avventura venuto dalla cava troppo giusto, che ogni colpo soverchio è mortale».
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A differenza degli scultori cinquecenteschi, Bernini sembra seguire una successione ordinata di strumenti cui corrispondono altrettante fasi di lavoro. Se si osserva il retro della Verità della Galleria Borghese, si nota la subbia usata per sgrossare, seguita da due tipi di gradine, lo scalpello, il ferrotondo, la raspa, l’unghietto, il trapano e abrasivi. Questa sequenza logica non ammetteva ripensamenti in corso d’opera. Anche nella Santa Bibiana la subbia si scorge nelle parti celate alla vista ed è usata per dare una iniziale sgrossatura al marmo, seguita dalla modellazione condotta con il calcagnolo, mentre alla gradina è affidata la resa della capigliatura. Ai piedi della santa la sua tipica traccia a forchetta è occultata dal successivo uso dello scalpello piatto che, come riferisce Felibien alla fine del Seicento, oltre a «togliere i segni che la gradina ha lasciato sul marmo […] esso dà dolcezza e tenerezza alla Figura».
Come nell’Apollo e Dafne, il fogliame è ottenuto con l’impiego del trapano a corda che ha lasciato profonde scanalature.
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Dopo la modellazione, lo scultore abradeva le superfici con raspe e lime di varie dimensioni, fino alla levigatura con polveri abrasive come la pietra pomice e la lucidatura finale con Tripoli e poi con la paglia bruciata.
L’artista si dimostra molto attento alla levigatura degli incarnati, condotti ad estrema perfezione, rispetto alle superfici di altri elementi compositivi (foglie, tronchi), lasciate con le tracce impresse degli strumenti impiegati. I restauri eseguiti sulle sculture hanno escluso l’impiego da parte dello scultore di patinature finali.
La grande quantità di bozzetti e di disegni testimonia l’importanza che Bernini dava alla fase progettuale, unita ad una grandissima abilità nello scolpire. Egli aggrediva il marmo su tutti e quattro i lati contemporaneamente, ma senza mai perdere la visione d’insieme. I suoi allievi e collaboratori, invece, spesso si trovavano a non avere più marmo sufficiente per realizzare le ali degli angeli perché avevano perso la proporzionalità delle forme e furono pertanto costretti a scolpire blocchi separati per poi unirli in un secondo momento. I diversi scultori attivi nella bottega del Bernini, tra cui Orfeo Boselli, eseguivano il lavoro in completa autonomia, mantenendo una propria personalità e seguendo solo le impostazioni iconografiche e compositive generali date dai bozzetti berniniani.
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Secondo le convinzioni del maestro, i giovani scultori dovevano formarsi attraverso lo studio diretto delle antichità classiche e su sua proposta venne fondata nel 1666 l’Accademia di Francia. La direzione fu affidata a Charles Errand, che provvide a eseguire i calchi in gesso di tutte le più famose statue esistenti a Roma. I calchi, utili per l’apprendimento degli scultori, raffiguravano generalmente singole parti anatomiche. Presso l’accademia francese era diffusa la pratica di eseguire un modello a grandezza naturale in gesso, mentre in Italia si ricorreva sporadicamente a modello in stucco in scala I:I solo per le opere di grandi dimensioni e rilevanza. Questi modelli in stucco vanno nettamente separati dai «piccoli modelli in legno necessari per dare le misure ai blocchi», citati nei contratti come «legnette», ovvero sagome tridimensionali in legno che indicavano le dimensioni del blocco lapideo.
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Il marmo della cava carrarese del Polvaccio era nel Seicento considerato quello di migliore qualità. Al “mercante di marmo” era affidato il compito di far pervenire integri nella bottega dello scultore i pezzi ordinati. Per ridurre il peso e il conseguente costo del trasporto (quantificato in «carrate» o «carrettate», ovvero il peso trasportato da un carro trainato da due buoi) , i blocchi andavano consegnati già sommariamente «sgrossati». Per traferire correttamente le misure dal modello al blocco lapideo, gli scultori ricorrevano al finitorium proposto da Leon Battista Alberti e che, nella sua successiva evoluzione, si trasformerà in telaio quadrato.
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