Alberto Giacometti: alla ricerca dell’essenza umana

di Laura Corchia

«Delle piccole sculture che erano sul tavolo diceva: “Non va, non va”. Il suo tono era deciso, convinto, doloroso, ma non indulgente; tuttavia in quei momenti le sue mani lo smentivano. Ne aveva una posata sul collo della testa di mezzo (le sculture in lavorazione erano tre, in plastilina), quella mano era gentile, come se si fosse posata sul collo di un bambino. Con l’altra toglieva e toglieva perché quel viso avesse qualche cosa di più. Aveva tante rughe, era già il protagonista di una battaglia che durava da qualche ora; tuttavia toglieva, segnando ogni possibile spazio libero, girando poi verso di me per fare un orecchio. Quando la testa era voltata dalla mia parte la trovavo strana e grottesca. Un uomo con un gran naso, un naso eccessivo che, quando era di fronte, metteva soggezione a chi lo guardava» (Giorgio Soavi).

Iniziò a usare la luce elettrica solo nel 1948, visse quasi tutta la vita senza acqua corrente e accettò di avere un telefono solo alla fine degli anni Cinquanta: la personalità di Alberto Giacometti (1901-1966) era davvero speciale.

Celebre per le sue esili e filiformi figure umane, nasce il 10 ottobre 1901 a Borgonovo. Il padre, pittore neo-impressionista, gli impartì i primi rudimenti dell’arte e, impressionato dal precoce talento del figlio, lo incoraggiò ad intraprendere studi artistici.

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Dopo un soggiorno a Roma, nel 1922 si stabilì a Parigi, dove iniziò a frequentare i corsi dello scultore Antoine Bourdelle. Avvinatosi dapprima al Cubismo, non mancò di mostrarsi interessato al nascente Surrealismo. Opera fondamentale di questo periodo è la Donna-Cucchiaio, dall’addome a forma di uovo, sopra convesso e sotto concavo, come a chiarire il doppio compito del ventre femminile: accogliere ma anche espellere.

I rapporti fra uomini e donne furono per l’artista un’ossessione contante e oggetto di una ricerca che portò avanti per tutta la sua vita. Nelle sue opere la donna è sempre vissuta come un ente distante e differente.

A partire dagli anni Trenta, le sue sculture abbandonarono la superficie liscia per assumere una consistenza grumosa, simile a sabbia bagnata. Rispetto al modello, la figura si allunga e si scarnifica, fino a presentare teste del diametro di due centimetri su corpi lunghi due metri.

Emblematica in tal senso è la scultura dal titolo L’uomo che cammina II (Homme qui marche II), realizzata nel 1960. La figura emaciata, rozzamente rifinita, possiede una strana potenza. Attraverso la forma innaturalmente allungata, la scultura vuole trasmettere il senso della solitudine e dell’assoluta separazione tra gli individui e sottolineare la fragilità della condizione umana.

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Diversamente da molti scultori, Giacometti non partiva da un blocco di materiale da sbozzare e scalpellare fino a trovare la forma voluta, ma da uno scheletro di metallo a cui aggiungeva materiale prima di passare alla fusione.
Per Giacometti l’arte non ha né presente né passato, tutto è sempre contemporaneo, “tutto si fa simultaneo”, perché non è il tempo, ma l’anima che ci fa sentire un’opera o un autore, vicini o lontani, vivi o morti. È per questo che si rifà anche all’arte primitiva della preistoria.
Giacometti fa proprie le problematiche esistenzialistiche; non a caso della sua pittura è stato interprete attento Sarte, che ne ha colto i riferimenti all’inaccessibilità degli oggetti e delle distanze esistenti tra gli uomini. Lo strumento stilistico scelto per tradurre in immagini le apparenze della realtà visibile è, in pittura, un segno che si infittisce e si dirada per esprimere la trama di relazioni degli oggetti fra loro e con loro nello spazio circostante, mentre in scultura grumi di materia apparentemente informi si coagulano lungo fondamentali linee di forza.

Un giorno, racconta nel ’61 a un amico, “uscendo, sul boulevard, ho avuto l’impressione di essere davanti a qualcosa di mai visto […]. Sì, di mai visto: l’ignoto totale, meraviglioso. Il boulevard Montparnasse , assumeva una bellezza da mille e una notte, fantastico, totalmente sconosciuto […] e al tempo stesso il silenzio, una specie di incredibile silenzio […] tutto aveva l’aria di un’immobilità assoluta […] come se il movimento non fosse più che una successione di punti di immobilità . Una persona che parlava non esprimeva più un movimento, erano delle immobilità che si succedevano, completamente staccate l’una dall’altra, momenti immobili che avrebbero potuto durare, dopotutto delle eternità, interrotti e seguiti da altre immobilità […]. Si incrociano, si sorpassano, […] senza vedersi, senza guardarsi”.

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Per capirne la poetica, fondamentali risultano le sue parole: «Un tempo andavo al Louvre e i quadri o le sculture mi davano un’impressione sublime. Oggi se vado al Louvre non posso resistere a guardare la gente che guarda le opere. Il sublime oggi è per me nei volti più che nelle opere. Guardavo con disperazione le persone vive. Capivo che mai nessun artista potrebbe cogliere completamente questa vita. Era un tentativo tragico e risibile. Sono quasi allucinato dal volto delle persone».

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Alberto Giacometti, L’homme qui chavire, 1950. Bronzo, 60 x 14

 

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