Vizi e Virtù nella Cappella degli Scrovegni a Padova

Di Pietro Perrino

Uno dei più straordinari cicli pittorici raffiguranti i Vizi e le Virtù è quello realizzato da Giotto nei primissimi anni del XIII secolo nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Volgendo lo sguardo verso il Giudizio Universale in controfacciata verso occidente, si segue un percorso visivo che si sviluppa sulla parte inferiore delle due pareti laterali dove sono raffigurate le allegorie dei Vizi e delle Virtù, sapientemente disposte – secondo uno schema di contrappasso – ciascuna in rapporto all’altra. La grande novità giottesca a Padova non è solo l’associazione dei due cicli religiosi con quello delle personificazioni, ma risiede principalmente nella disposizione e nella resa delle figure allegoriche. Per la prima l’artista si attiene solo in parte alla tradizione, soprattutto perché nel collocare le allegorie Giotto le dispone in modo tale che esse figurino non solo in rapporto le une con le altre, ma che siano in rapporto anche con il Giudizio Universale, e per questo da leggersi quasi in conseguenza dell’evento del Giudizio, come una sorta di ammonimento preventivo. Così, ad esempio, se si segue il cammino dei Vizi si vedrà come il percorso termini in direzione dei dannati nell’Inferno; se al contrario s’intraprende il giusto cammino delle Virtù, esse condurranno il fedele in Paradiso insieme agli altri beati.

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Il ciclo si articola come di seguito: Prudenza/Stoltezza, Fortezza/Incostanza,Temperanza/Ira, Giustizia/Ingiustizia, Fede/Infedeltà, Carità/Invidia, Speranza/Disperazione, secondo un ordi.ne di corrispondenze studiatissimo. Si noti come per poter mettere in relazione la Speranza con i beati del paradiso del Giudizio Universale, Giotto abbia optato per un ordine delle Virtù teologali differente da quello tradizionale; per quanto riguarda invece le Virtù cardinali, la sequenza si rifà invece a quella descritta da sant’Agostino nel De libero arbitrio; cioè: Prudenza, Fortezza, Temperanza e Giustizia. Il rapporto con sant’Agostino tuttavia non si limita a questo, poiché – come sostiene Irene Hueck – il motivo per cui Giotto ha raffigurato i Vizi come creature orrende e deformi va rintracciato proprio nella convinzione del santo secondo cui il giusto cammino piace di più all’uomo quando esso viene messo a confronto con la via del male.

È utile inoltre mettere in evidenza che se nelle cattedrali francesi la rappresentazione dei Vizi e delle Virtù in forma di corteo allegorico aveva prodotto molti esempi sin dal XII secolo, in Italia, ancora nel XIII secolo, questo tipo di impaginazione era ancora molto rara, e prima di Giotto si usava piuttosto raffigurare le Virtù combattenti contro i Vizi, secondo la tradizione desunta dalla Psycomachia di Prudenzio.

Entrando nella Cappella si è avvolti da un’atmosfera di solenne silenzio che permette di ammirare le allegorie, rappresentate come delle sculture, dipinte quasi a monocromo e con un senso di profondità minimo, in modo da dare l’idea di una schiera posta a guardia dei regni dell’aldilà. Il ciclo dei Vizi e delle Virtù agli Scrovegni mostra quindi un’originalità che rispecchia da una parte un aggiornamento alle tendenze francesi, dall’altro un preciso programma, non solo religioso ma anche civile, redatto dal committente Enrico che all’epoca della realizzazione dell’opera (tra il 1303 e il 1305/6), pur essendo molto giovane, era riuscito ad affermarsi – ed imporsi – in ambito lavorativo, senza tralasciare la propria fede. In quest’ottica, le due file alla base delle pareti laterali della cappella rappresentano una sorta di manifesto d’intenti ch’egli rende noto ai padovani, manifestando pubblicamente i propri saggi principi che, se seguiti in modo sinceramente virtuoso, permettono la conquista di un posto in paradiso.

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La prima virtù che incontriamo è la Prudenza, raffigurata come una donna anziana dal volto dolce, seduta su uno scrittoio decorato ed intenta a scrutare uno specchio che tiene nella mano sinistra mentre con la destra regge un compasso, allusione alla misura, almodus oraziano. Ciò che rende questa allegoria unica nel suo genere risiede nel fatto che dietro la testa femminile ne spunta un’altra, quella di un uomo barbuto, secondo un’iconografia bifronte, solitamente adoperata per la rappresentazione del mese di Gennaio nelle vesti del dio Giano bifronte, appunto. Questo molto probabilmente è un’allusione alla contrapposizione tra sapientia umana – il viso barbuto – e sapientia divina, rappresentata dal volto femminile.

 

Opposta a Prudenza è Stoltezza, vizio impersonato da un obeso e grottesco giullare che tiene con una mano un bastone e con l’altra piega le dita quasi volesse avviare un discorso. Il giullare è scalzo e posa i piedi non su un piano, bensì su di una roccia scoscesa, proprio ad evidenziare la sua ignoranza. Lo stolto è infatti colui che non ha fatto un buon uso dell’intelligenza conferita all’uomo da Dio, e per questo non si eleva, bensì conduce un’esistenza moralmente povera e spesso assediata dagli istinti animaleschi.

 

La virtù successiva è la Fortezza, una donna guerriero, un Ercole al femminile che con una mano tiene un grande scudo decorato con un leone rampante e con l’altra una specie di mazza, arma tipica medievale usata soprattutto per colpire gli elmi. L’epigrafe al di sotto della personificazione esprime chiaramente il significato di questa virtù che non va intesa in senso fisico, ma secondo un’accezione etica e spirituale. Alla fermezza e solidità della Fortezza, si oppone l’Incostanza, una donna che tenta invano di cercare l’equilibrio su di una lastra marmorea inclinata.

 

Terza virtù cardinale ad essere rappresentata è la Temperanza, una donna dall’aura nobile che indossa una lunga veste dal panneggio pieghettato e che presenta due caratteristiche che ben rivelano l’essenza di questa virtù: sulle sue labbra è posta una briglia, con un chiaro riferimento alla necessità di parlare con cautela, senza affannarsi in discorsi passionali e incontrollati; v’è poi la spada la cui impugnatura è avvolta nella cintura a renderla praticamente inoffensiva e volta a significare l’utilizzo prudente delle armi. Ad essa si contrappone l’Ira, raffigurata come una donna in preda al dolore, dal volto deformato, coi lunghi capelli scomposti, intenta a strapparsi le vesti mostrando un torace piatto.

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La virtù successiva è la Giustizia. E’ una donna regale seduta su un trono cuspidato che tiene nelle mani i piatti di una bilancia sui quali poggiano due piccole figurine: sul piatto destro c’è un uomo barbuto che sta per decapitare un uomo inginocchiato, mentre sul sinistro un personaggio alato simile ad una Vittoria classica sta per incoronare un uomo seduto dietro ad una sorta di palchetto di legno sul quale vi sono martelletti e pinze che aiutano l’osservatore ad identificarlo come un artigiano. Il fatto che i due uomini abbiano sulla bilancia lo stesso peso indica l’equità  della Giustizia, presupposto indispensabile per una buona prosperità del bene comune. Un elemento rilevante ed esclusivo che troviamo solo nella raffigurazione del binomio Giustizia/Ingiustizia sono le due predelle poste alla base delle personificazioni e che raffigurano gli effetti che la Virtù e il Vizio in oggetto hanno sulla vita degli uomini. Nella predella della Giustizia vi è un’atmosfera di pace e armonia dove i cavalieri sono intenti nella caccia al falcone e una coppia danza allegramente al ritmo di un tamburello suonato da una fanciulla. Per l’Ingiustizia, Giotto la raffigura come un uomo barbuto con zanne al posto dei denti e artigli affilati al posto delle unghie. Egli è seduto davanti ad un castello in rovina, in stile romanico (in contrapposizione allo stile gotico del trono della Giustizia) e il suo sguardo è rivolto alla raffigurazione di Satana nel Giudizio Universale. Molti studiosi, tra cui Selma Pfeiffenberger hanno visto in questa personificazione una reminiscenza di Ezzelino da Romano, tiranno di Padova dal 1237 al 1257.  Se nella predella Giustizia regnava l’armonia, in quella dell’Ingiustizia dominano la discordia e il disordine; al centro una donna denudata viene straziata da due uomini, mentre un mercante è stato assalito dai briganti, sulla destra due guerrieri sono pronti a combattere.

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Alle quattro Virtù cardinali seguono le Virtù teologali; la prima è la Fede, raffigurata come una sacerdotessa che si erge in tutta la sua maestosità su una roccia, allusione alla prima pietra posta per la costruzione della Chiesa, mentre tiene in una mano una croce astile e nell’altra un cartiglio. Nonostante la statuaria maestosità della figura e del copricapo, quasi regale, le vesti della Fede sono lacerate in alcune parti, e questo pare potersi leggere come un riferimento alle battaglie della Chiesa contro le eresie. Si noti poi la piccola statua classica schiacciata dalla virtù, ad indicare la fine del Paganesimo. Ad incarnare tutte le altre religioni è l’Infedeltà, una figura instabile che trattiene, sollevandola leggermente, la lunga veste per non inciampare, ha un occhio chiuso e indossa un elmo medioevale; il significato sembra pacifico: l’infedele che si rifiuti volutamente di non ascoltare la parola divina – qui sintetizzata nella figura di profeta in alto a destra, intento a dispiegare una pergamena – cadrà nella ‘trappola’ del paganesimo.

 

Seconda virtù teologale è la Carità, qui resa come una divinità greca dal profilo elegante ma deciso, vestita con un khiton e con una mano offre il suo cuore – realisticamente raffigurato – a Cristo che si affaccia dall’angolo in alto a destra del riquadro, e con l’altra mano tiene un canestro colmo di fiori, spighe e frutti come melagrane e castagne, l’abbondanza da distribuire ai bisognosi. La figura poggia i piedi su un insieme di pergamene e sacchi contenenti farina, grano e alcuni oggetti preziosi a simboleggiare il ripudio per i beni mondani; è interessante infine notare un elemento rilevante ovvero le tre fiamme rosse che circondano il suo capo per ricordare che fu proprio questa la virtù prediletta da Cristo.

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Anziché rappresentare l’Avarizia come opposto della Carità, Giotto sceglie l’Invidia, poiché se la virtù si rivolge al bene degli altri, questo vizio è il ripiegamento su se stessi. Siamo davanti ad una raffigurazione spaventosa: il vizio si presenta come un’orribile donna con grandi orecchie, utili per ascoltare le maldicenze sugli altri, con due corna ricurve e una lingua che si tramuta in serpente che le si ritorce contro per cavarle gli occhi. La donna tiene con una mano un sacco mentre con l’altra e intenta a cercare altro denaro perché l’invidioso è insaziabile non tollera che gli altri possano avere più di lui. Il sentimento d’invidia brucia l’anima e ciò è reso dalle fiamme rosso vivo che circondano la figura. La scelta di questo vizio al posto dell’Avarizia dipende probabilmente dalla volontà del ricco Enrico Scrovegni che aveva tutto l’interesse per evitare riferimenti alla sua professione di usuraio facendo risaltare quindi la virtù della Carità da lui esercitata per i padovani attraverso la costruzione della Cappella.

 

Ultima virtù è la Speranza, raffigurata come una Vittoria alata dal panneggio e dall’acconciatura ellenistici che si libra in volo per ricevere la corona offertale da un angelo (in alto a destra), ed è entrare quindi nel Regno dei Cieli. Irene Hueck fa notare come questa sia l’unica allegoria giottesca a seguire la Psychomachia di Prudenzio dove si parla appunto della Speranza che si libra in volo prima che la battaglia con i Vizi si concluda.

 

Opposta a questa virtù e la Disperazione, una donna che si è impiccata perché non ha avuto fiducia nella misericordia divina; un piccolo diavolo le afferra il viso con un uncino quasi come a voler condurre la sua anima verso gli Inferi.

 

Concludendo, si può affermare che questo ciclo fu realizzato da una parte per servire da monito per i fedeli chiamati a scegliere tra una vita virtuosa e una vita dannata volta solo al proprio tornaconto e priva di fiducia in Dio; dall’altra questo corteo di Vizi e Virtù rivela l’accuratezza del programma ideato e suggerito dal committente, ricco commerciante che vuole però dimostrare ai suoi concittadini di essere soprattutto un uomo virtuoso che, nonostante la sua ricchezza materiale, non ha dimenticato di abbracciare la carità e la speranza e di voler difendere l’Ecclesia a nome di una città guelfa come Padova.

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BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

C.Frugoni, L’affare migliore di Enrico, Giotto e la Cappella degli Scrovegni, Torino 2008, pp. 273-340.

  1. Hueck, «il programma iconografico dei dipinti» in La Cappella degli Scrovegni a Padova (Mirabiliae Italiae, 13), a cura di D.Banzato – G.Basile, Modena 2005, 2 voll. (vol. 1 Atlante fotografico; vol. 2 Testi. Saggi e Schede) .

S.Pfeiffenberger, The Iconology of Giotto’s Virtues and Vices at Padua (Bryn Mawr College, Ph.D.), Ann Arbor/Michigan 1966, pp. 34-37

  1. Baschet, ad vocem «Vizi e Virtù», in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol XI, Roma 2000, consultabile online: http://www.treccani.it/enciclopedia/vizi-e-virtu_(Enciclopedia_dell’_Arte_Medievale)/

 

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