Storia e iconografia di Ganimede, il bellissimo giovane rapito da Giove

di Laura Corchia

Bellissimo giovinetto figlio del re troiano Troo e di Calliroe, Ganimede viene rapito dagli dei affinché divenga il loro coppiere. Omero, nel V libro dell’Iliade, racconta che Giove, innamoratosi perdutamente di quello che è definito “il più bello di tutti i mortali”, si trasforma in aquila, piomba dall’alto e lo rapisce, portandolo con sé sull’Olimpo.

A partire dal Rinascimento, diversi artisti hanno raffigurato il mito di Ganimede, concentrandosi maggiormente sul momento in cui gli artigli dell’aquila afferrano il giovane e lo conducono verso il cielo. Talvolta, nelle raffigurazioni compare un’anfora, evidente richiamo al futuro compito che gli verrà affidato dagli dei.

Oltos, Banchetto degli dei, 510 a.C. ca.
Oltos, Banchetto degli dei, 510 a.C. ca.


Una delle prime raffigurazioni di Ganimede è riportata su un vaso attico databile al 510 a.C circa e conservato presso il Museo Nazionale di Carpinia. L’artista, identificabile con Oltos, ha rappresentato un banchetto degli dei e al centro troviamo la figura di Ganimede intenta a mescere il nettare. Il rapimento è dunque già avvenuto e il giovane è ormai diventato il coppiere delle divinità.

L’iconografia del rapimento vero e proprio si afferma successivamente e mostra Zeus che afferra il giovane e lo tiene stretto a sé. Il dio è raffigurato sotto sembianze umane o trasformato in aquila, come mostra una scultura in marmo risalente al 200 d.C. L’opera, scolpita a tutto tondo, è una probabile copia romana dell’originale eseguito dallo scultore greco Leochares, come attesta Plinio nelle nelle Naturalis Historia: “(…) Leocare ha fatto il gruppo dell’Aquila e Ganimede ove l’aquila sembra capire quale preda rapisca e a chi la porti, dato che cerca di non ferire il giovinetto con gli artigli anche attraverso la veste (…)”. 

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Anonimo, Ratto di Ganimede, 200 d.C
Anonimo, Ratto di Ganimede, 200 d.C

A partire da questo momento, l’iconografia del mito di Ganimede resterà pressoché invariata. Interessante è tuttavia la raffigurazione che si trova su un manoscritto miniato dipinto dal Maître François e databile al 1475-1480. All’interno di una corte,  Giove è seduto su un trono sormontato da un baldacchino e ha il capo cinto da una corona aurea. Abbraccia il giovane Ganimede, mentre versa delle monete sul grembo di Danae, anch’ella abbigliata con abiti quattrocenteschi. Ma perché l’artista ha raffigurato due miti diversi in un’unica opera? E’ Sant’Agostino ad accomunarli, interpretandoli come esempio negativo dei miti pagani.

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Maître François, Le Hague, manoscritto del De Civitate Dei di sant’Agostino, MMW, 10 A 11, fol. 47 r., 1475-1480

Una delle opere più belle e famose che raffigurano il mito di Ganimede è però quelle dipinta da Antonio Correggio tra il 1531 e il 1532. Commissionata da Federico II Gonzaga, la tela fa parte di un ciclo che narra degli amori di Giove e fa da pendant con quella, bellissima, che narra del mito di Giove e Io. Protagonista assoluto del dipinto è Ganimede, raffigurato come un giovinetto riccioluto. Egli si aggrappa saldamente all’aquila e si libra nell’aria, mentre un cielo dalle tinte azzurrate fa da sfondo alla scena. La luce mette in risalto la pelle madreperlacea della figura, ulteriormente messa in evidenza dalle piume scure del rapace. In basso, un cane assiste alla scena protendendo il capo verso l’alto, forse nell’ultimo tentativo di afferrare Ganimede ed impedire a Giove di portarlo via. L’animale è un’esatta citazione tratta dall’ Eneide Virgilio (V, vv. 249-255):

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“Agli ammiragli stessi aggiunse distinti onori: /al vincitore una veste con oro, dove sul bordo / con doppio fregio corre la porpora di melibea: / v’è intessuto il regio fanciullo, che sull’Ida / selvoso in corsa e con armi insegue i cervi veloci, fiero, ansante in vista; lui dall’Ida l’alato / armigero di giove in alto rapisce e con zampe unghiute; / tendono invano i vecchi custodi le mani alle stelle / e invano al vento fanno minacce i cani latrando”.

Antonio Correggio, Ratto di Ganimede, 1531-32
Antonio Correggio, Ratto di Ganimede, 1531-32

Secondo Micheal Hirst (1978) l’aquila era emblema dei Gonzaga ed era simbolo degli imperatori romani. Si spiega dunque la scelta del soggetto: richiamare i committenti e omaggiare Carlo V, incoronato a Bologna nel 1530 e probabile destinatario dell’opera.

Pieter Paul Rubens, ratto di Ganimede, 1636-38
Pieter Paul Rubens, ratto di Ganimede, 1636-38

Un secolo più tardi, anche Pieter Paul Rubens realizza un dipinto con il medesimo soggetto. Come Correggio, sceglie un’analoga impostazione verticale. La tela fa parte di un ciclo di opere tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, destinate a decorare le pareti del padiglione da caccia del re Filippo IV. Giove sotto forma di aquila ha afferrato Ganimede, il cui volto rivela, a differenza della versione dipinta da Correggio, paura e sgomento. Per la sua figura, Rubens sembra essersi ispirato ad uno dei figli di Laocoonte del celebre gruppo scultoreo.

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