Stannato di piombo, cinabro e malachite: così i pittori romani dipingevano le splendide ville di Pompei

Di Laura Corchia

Sulle tecniche e sui colori usati nella pittura parietale romana ci danno preziose informazioni Vitruvio e, soprattutto, Plinio. Quest’ultimo compie una interessante suddivisione tra i colori, dividendoli in due categorie: colores floridi e colores austeri. I primi sono quelli che noi chiameremmo colori trasparenti e i secondi colori a corpo. Data la loro preziosità, i colores floridi dovevano essere forniti dal committente e, secondo Plinio, erano i seguenti: minium, armenium, cinnabaris, chrysocolla, indicum pupussirum. Di questi, il minio e il cinabro erano adoperati per ottenere il famoso rosso pompeiano.

colores austeri venivano suddivisi in due ulteriori categorie: quelli che si trovano in natura e quelli che si ottengono con una speciale preparazione. Si trovano in natura: sinopis (terra rossa), rubrica (ocra bruciata), paraetonium (bianco, carbonato di calce), melinum (terra bianca), eretria, auripigmentum (giallo). Altre varietà di bianco erano la cerussa (biacca) e la selinusia.

Vitruvio e Plinio parlano anche dei vari strati di intonaco, ma non spiegano i segreti della pittura romana. In realtà, benché i dipinti pompeiani si sogliano chiamare affreschi, la tecnica di esecuzione resta ad oggi ignota. Pare che i colori siano stati applicati sul muro già asciutto, perché non si trovano tracce delle “giornate”. Inoltre, gli azzurri e i verdi di cui ci parla Plinio non potevano venire applicati sul muro bagnato.

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Una serie di analisi chimiche condotte su frammenti dei dipinti pompeiani sembra aver accertato il fatto che la tecnica adoperata fu basilarmente la tempera, il cui collante era costituito da calce idrata e saponificata. La saponificazione (cioè aggiunta di materie grasse) aveva lo scopo di neutralizzare la causticità della calce. La straordinaria lucentezza dei colori ha fatto pensare che fossero stati eseguiti ad encausto, ipotesi smentita dall’assenza di calce. Si può ipotizzare una diligente lucidatura finale o o una “encausticazione” del dipinto già terminato. Ancor meglio si può pensare alle due cose insieme.

La tecnica dell’encausto viene descritta da Vitruvio: si tratta di spalmare sulla parete ben asciutta della cera punica (cera vergine bollita ripetutamente nell’acqua di mare con aggiunta di nitro) liquefatta e stemperata con un po’ d’olio. Sulla parete si passava poi una sorta di scaldino riempito di brace, al fine di levigare e far penetrare la cera.  Infine si passava alla lucidatura con l’ausilio di una candela e di panni puliti.

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I romani avevano anche un altro modo di dipingere, noto come ars compendiaria: i contorni si fondono con l’ambiente circostante, perdono determinatezza, e figure e oggetti sono suggeriti da sprazzi di luce e da tocchi di colore. Una sorta di Impressionismo ante litteram.

Le testimonianze della pittura romana sono scarse anche se, a differenza di quella greca, sono arrivate fino a noi testimonianze più significative. In particolare, si sono salvati i ritratti delle tombe di Fayum e le decorazioni delle ville di Pompei.

I ritratti che accompagnano le mummie dell’oasi di Fayum rappresentano una preziosa fonte di informazione per indagare le tecniche e i materiali impiegati. Dalle analisi sono infatti emersi dei pigmenti innovativi e l’impiego dell’encausto su tavola di legno, che fa uso della cera d’api come legante. Oltre a ossidi di ferro, in questi dipinti è stato trovato il minio e lo stannato di piombo. Il ritrovamento di quest’ultimo colore è abbastanza sorprendente, dal momento che si pensava che fosse diventato di uso comune soltanto nel tardo Medioevo. Altra novità è stata il ritrovamento del silicostannato di piombo, che si ottiene fondendo ossidi di piombo e stagno con sabbia pura a circa 800°C.

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Purtroppo non conosciamo i nomi degli artefici che resero le ville di Pompei così riccamente decorate. Plinio ci parla soltanto di Fabullo, pittore che decorò la Domus Aurea di Nerone.

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