Séraphine de Senlis: il colore per combattere i mostri dell’anima

di Laura Corchia

11 dicembre 1942. Manicomio di Clemont. Séraphine de Senlis, chiude per sempre gli occhi. Probabilmente l’ultima immagine che vede è una parete bianca, mentre lo stomaco brontola per la fame. Lei, che nella sua mente aveva costruito un mondo a colori, lascia questa mondo come era vissuta: dimenticata, emarginata, sola.

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Prima dell’internamento, passava le sue giornate a sfregare i pavimenti delle case dei notabili di Senslis, mentre nel silenzio della notte fabbricava i suoi colori e dipingeva su tavole di legno. Una vita doppia, la sua: i “lavori neri” di giorno, per guadagnarsi da vivere, e i “lavori colorati” di notte. Umile serva e grande artista, alla luce di una lampada a petrolio, colorava le sue tele in modo forsennato. Come medium per i suoi pigmenti usava l’olio dei lumini furtivamente sottratto in chiesa, sentendosi quasi graziata da quella Vergine Maria che la ispirava e che l’aveva incoraggiata a diventare artista. Per lei cantava salmi, mentre il pennello correva veloce sulla tela e tratteggiava intrichi di foglie e frutti, fiammeggianti piume e inquietanti immagini partorite da un tormento interiore. Nei pochi momenti di pausa, mandava giù abbondanti sorsi di vino.

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Nata contadina nel 1864, questa donna semplice e profondamente religiosa , votata a lavare i panni nelle gelide acque di un fiume e a sgrassare le pentole imbrattate dai lauti pasti dei padroni, nascondeva un meraviglioso universo fatto di colori brillanti e lucidi, che lei stessa fabbricava mischiando succhi vegetali, argille e sangue di macelleria.  Le sue opere, via via più grandi, mai ospiteranno un volto, un corpo, un oggetto o un paesaggio.

Scrive Françoise Cloarec: “affetta da psicosi cronica con manie di grandezza; è un’ artista pittrice; deve andare in Spagna per sposarsi con un ex capitano – Delirio di persecuzione: veleno, topicida, un notaio vuole abusare di lei… Allucinazioni uditive: sente la voce della sorella morta, di Dio e della Madonna… Da ricoverare”.

Nel frattempo, aveva conosciuto Wilhelm Uhde, critico e mercante d’arte scopritore di Picasso e Braque. Séraphine era stata incaricata di servirlo, ma ben presto divenne una pittrice della sua cerchia. Lui la incoraggiava ma, al tempo stesso, ne alimentava le manie di grandezza. Il precario equilibrio psichico della donna ne uscì compromesso, soprattutto dopo che Uhde le comunicò la necessità di dover rinviare la sua prima mostra personale. Divorata dai mostri interiori che abitavano la sua anima, sempre più sola e delirante, fu chiusa in manicomio. Da allora smise di dipingere e morì nel più completo isolamento. Lei che aveva sognato un epitaffio che recitava: “Qui riposa Séraphine Louis, che non ha rivali, aspettando la sua felice Resurrezione”, è stata invece seppellita in una fossa comune. Finisce così la vita di una pittrice dimenticata da tutti, un’artista che per certi versi ci ricorda un altro grande pittore alienato, Antonio Ligabue.

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