“Le teste composte” di Arcimboldi: una lettura critica

di Selenia De Michele

La fortuna di Giuseppe Arcimboldi (1527 ca. – 1593) è stata da sempre legata all’invenzione delle sue famose “teste composte”, nature morte di fiori, frutti, animali e altri oggetti agglomerati a formare profili o mezzi busti di figure ambigue oscillanti tra lo spettacolo pseudoscientifico della natura, il suo splendore cattivante e il grottesco respingente della caricatura. Tuttavia la comprensione profonda di Arcimboldi come artista è estremamente complicata ed è fuorviata proprio dalla sua strana invenzione. Fermarsi alla sua spettacolare trovata porta ad una lettura superficiale. Bisogna ammettere che l’idea di costruire delle teste umane partendo da elementi di altra natura ha un valore che non oltrepassa quello di una trovata ingegnosa appunto e non del tutto originale (Lomazzo la fa risalire a Roger van der Weyden).

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Arcimboldi non è importante perchè ha avuto e diffuso questa idea; è importante perchè l’ha risolta in termini qualitativi elevatissimi e soprattutto perchè ha saputo farne un simbolo ricchissimo di significati concettuali ma anche formali: un vero e proprio manifesto della cultura del suo tempo. Ripercorrendo la sua fortuna si nota come la sua idea ha funzionato a doppio taglio: da un lato è servita da richiamo  dall’altro ha distratto dal problema di chiarire ed approfondire. Che fosse fonte di richiamo per i surrealisti non deve stupire in quanto essi non puntavano ad un recupero critico ma a trovare un precursore nel passato. Quando invece l’idea folgorò Benno Geiger, il primo autore di una monografia, i problemi circa l’attribuzione e la sistemazione dei dipinti autografi si fecero pressanti. Geiger, ricercatore geniale, poliedrico e pieno d’entusiasmo, non fu però in grado di andare oltre l’idea con il risultato di attribuire ad Arcimboldi tutti i quadri che ripetevano tale schema compositivo. Il risultato fu un catalogo troppo esteso per un pittore che è senza ombra di dubbio tra i più rari del mondo. A voler essere generosi le teste autografe conosciute dell’Arcimboldi rasentano a stento la dozzina e tra queste i pochi spunti certi da cui partire per una definizione seria del catalogo sono i quattro esemplari del Museo di Vienna (due “stagioni” e due “elementi”) la “Primavera” di Madrid, la “Terra” in collezione privata a Vienna e il “Vertunno” di Stoccolma. Per queste invenzioni i documenti valgono pochissimo in quanto possono far riferimento ad un originale andato perduto senza contare che repliche piuttosto fedeli vennero fatte già all’interno della stessa bottega dell’artista.

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Una prima sfoltita del catalogo venne effettuata da parte di Legrand e Sluys e da allora gli studiosi si sono concentrati quasi soltanto sulla famigerata idea compositiva. Si è continuato a trascurare il problema delle fonti stilistiche, della cultura pittorica dell’autore e delle sue teste a vantaggio quasi esclusivo delle fonti letterarie e concettuali. Va anche considerato che le origini milanesi dell’Arcimboldi come pittore di figura non “capriccioso” sono piuttosto oscure. Sappiamo che dipinse stemmi nobiliari, oggi perduti, e fece dei cartoni per alcune vetrate dalle quali non è facile ricavare indicazioni stilistiche precise. Fonte leggermente più indicativa della sua cultura pittorica è l’arazzo del Duomo di Como realizzato su un suo cartone; si può supporre che la sua cultura milanese seguisse l’asse tracciato da Leonardo, Bramantino e Gaudenzio Ferrari. A causa di questa difficoltà si è insistito ancora di più sulle teste a proposito delle quali l’attenzione si è focalizzata sull’ambiente culturale della corte asburgica e sul retroscena simbolico e concettuoso delle figure. La svolta in questa direzione si deve a Thomas da Costa Kaufmann e si basa su un ritrovamento insperato nella Biblioteca Nazionale di Vienna: una serie di manoscritti provenienti dell’entourage di corte del pittore propongono un’interpretazione allegorico-celebrativa dei due famosi cicli delle “Stagioni” e degli “Elementi”. Questi documenti confermano che Arcimboldi non fu solo pittore ma anche ideatore di giochi, tornei, spettacoli e costumi, scritture cifrate e persino di una trasposizione cromatica delle note musicali. A lui fa inoltre riferimento un poema di Giovanni Battista Fontana che ha per oggetto le due famose serie.

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Qui si fornisce un’interpretazione allegorico-celebrativa: secondo Fontana le Stagioni e gli Elementi vanno intesi come un omaggio all’imperatore: i profili sono “Cesareos vultus” cioè ritratti dell’imperatore che celebrano il suo dominio sulle stagioni e sugli elementi (macrocosmo) e sul microcosmo che ad essi è subordinato (fiori, oggetti, e così via). Essi prendono forma umana per significare appunto il dominio della casa d’Austria sull’universo e sul tempo nella persona del sovrano. Grazie a questa lettura molti dettagli divengono più chiari: l’aquila e il pavone asburgico nell'”Aria”; l’aquila bicipite e il collare del Toson d’Oro fatto di acciarini nel “Fuoco”; il velo del Toson d’Oro e la pelle del leone d’Ercole, simbolo boemo, nella “Terra”; l’acciarino intessuto nella cappa di paglia nell'”Inverno” e così via. Inoltre tutti i ritratti alludono sul capo ad una specie di corona e sono pensati per fronteggiarsi a coppie secondo l’infinita catena di corrispondenze che associa stagioni, elementi ma anche età (la Primavera è giovane mentre l’Inverno è vecchio), umori (e quindi fisionomie) e via dicendo. Tutto questo alluderebbe anche all’armonia dell’Impero e alle politiche matrimoniali degli Asburgo. In parte questa lettura è chiarificatrice ed è certo che fosse conosciuta dall’Arcimboldi che la assecondò e contribuì ad ispirarla. Un caso analogo si presentò anni dopo con la realizzazione del Vertunno che raffigura Rodolfo II dietro un’altra vertigine di simboli. Il poema che ne da la chiave di lettura è del Comanini che propone una lettura ancora più sottile. Ogni animale che compone la Terra avrebbe un suo significato in relazione l posto che occupa nella testa: ad esempio l’elefante, animale pudico, fa da guancia che è la sede vergogna. Sicuramente queste letture sono in sintonia con l’estetica dell’ingegno dell’epoca ma se prese troppo alla lettera rischiano di assecondare interpretazioni non del tutto coscienti al momento di realizzazione del quadro. Il problema risulta ancor più delicato se si vuole ricostruire l’iter che ha portato alla realizzazione delle teste composte nel loro effettivo costituirsi come edificio formale e compositivo. Non si può trascurare inoltre che le teste delle serie delle Stagioni e degli Elementi erano già state concepite prima delle interpretazioni date dal Fontana e che sul piano formale e concettuale l’idea compositiva funziona benissimo anche senza di loro. In un pittore il moto ideativo è sempre di matrice formale e mai concettuale dunque le origini delle teste vanno cercate in questo ambito ed è interessante notare che precedenti si possono trovare nei cammei ellenistici di Pompei, nei grifoni armeni del Quattrocento e nelle miniature indiane, tuttavia ci troviamo in ambiti lontani nello spazio e nel tempo per essere considerati dei veri e propri elementi costitutivi. La questione è allo stesso tempo più semplice e più complessa. Più semplice in quanto bisogna considerare la formazione artistica di Arcimboldi che non si è limitato a copiare un’idea ingegnosa ma che l’ha fatta maturare all’interno della propria tradizione artistica che potrebbe aver conosciuto una tradizione animalista e di pittore di verdure di matrice fiamminga filtrata attraverso l’analisi della natura di Leonardo.

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Inoltre elemento importante si può ritrovare nella decorazione a festoni che potrebbe aver visto nella Loggia di Psiche alla Farnesina e in precedenza già comparso presso il Mantegna. Sicuramente i festoni della Loggia paiono quasi animarsi, prendere vita in una forma che non è ancora la testa arcimboldesca ma è già una costruzione autonoma. E’ indubbio che le teste abbiano qualcosa in più e si dovrà risalire ad esempio d’oltralpe che ne spieghino la straordinaria nitidezza ed analiticità. E si ritorna di nuovo  ad una declinazione simbolica che ha valore relativo nella genesi formale. Colpisce la preminenza nella Primavera di fiori come l’iris, l’aquilegia e il giglio così tipici della simbologia d’oltralpe. Delle teste colpisce anche la somiglianza con le teste leonardesche ed è del tutto verosimile che Arcimboldi li abbia conosciuti e che li abbia tenuti a mente nell’ideazione delle sue. L’inverno richiama l’arcigno delle caricature di Leonardo che sono quasi sempre di profilo; l’intreccio di rami che si piega a un’improbabile capigliatura è nipote di quello che si piega a ornamento della Sala delle Asse. Gli animali danno indicazioni più stringenti: osservando la Terra è difficile non pensare che Arcimboldi abbia meditato su certi fogli leonardeschi come gli studi sul gatto, sul cane, sul cavallo e su altri animali. Ma il terreno su cui le metamorfosi dei due pittori si incontrano veramente è quello anatomico; anche in questo caso l’idea è nelle teste di vecchi dove sembra avvita la metamorfosi, l’indurimento dei tendini e delle pieghe della pelle. Lo stupefacente collo dell’Inverno è quasi inspiegabile senza certi muscoli già legnificati come quelli dello studio per il probabile Giuda del Cenacolo. Lo stesso procedimento anatomico avviato da Leonardo coincide con quello arcimboldesco in quanto scomposizione ed aggregazione visuale del corpo umano nei suoi elementi. Ma ora l’intero microcosmo è diventato una struttura anatomica dell’universo ed assistiamo al trionfo finale di un’immensa ricognizione del mondo umano e naturale che Arcimboldi ha cercato di riassumere in modo globale e coerente per l’ultima volta prima che la scienza nuova e la cultura barocca ne distruggessero le basi cosmologiche.

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BIBLIOGRAFIA CONSULTATA PER LA REDAZIONE DI QUESTO ARTICOLO:

  1. La storia dell’arte: il tardo cinquecento. Vol .  10 – la biblioteca di Repubblica Electa. Pagg 357 – 358;
  2. Francesco Porzio, Arcimboldi e l’arte  delle meraviglie, in “Art e dossier n. 11”, Pagg.  23 – 36.