L’autoritratto e le Avanguardie novecentesche: evoluzione di un genere

di Federica Rubino

L’autoritratto nella storia delle avanguardie artistiche novecentesche subisce innumerevoli mutamenti rispetto alla concezione che di esso si aveva precedentemente, venendo proiettato in una dimensione onirica, trascendente, visionaria: l’autoritratto durante il Secolo breve[1] non è realizzato mediante una riproduzione pedissequa della realtà, non è nemmeno una sua lontana imitazione, per scrivere in termini platonici, ma una palingenesi. “L’esattezza non è sinonimo di verità”, secondo Matisse, “è importante esprimere le sensazioni, i sentimenti, le relazioni che esistono tra gli oggetti, perché la pittura esprime le visioni interiori dell’artista”: così l’arte figurativa, assorbita dalle avanguardie, vede mutare il suo profilo, allontanandosi dalla quotidianità, dai volti comuni, dai corpi, dai colori usuali presentando nuovi scenari dell’esistenza, squarciando una sorta di velo di Maya che da secoli aveva imposto una trasposizione accademica del reale come unico modo di intendere e rendere l’arte.

Henri Matisse. Autoritratto, 1900.

Gli artisti avanguardisti di correnti come il Cubismo, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo, Metafisica decisero, influenzandosi a vicenda in un’idea unanime, di iniziare a raffigurare l’effettività allontanandosi dalle sue fattezze concrete, ponendo dei filtri nella rappresentazione di quest’ultima, i filtri della soggettività, del solipsismo, della sensazione, della voluttà i quali guidarono i creatori verso un’unica ambizione ossia distaccarsi dalla forma in sé, dall’appiattimento della scelta di soggetti e dalle tecniche centenari, dalla concezione classica e unilineare di bello per privilegiare il contenuto, l’intimo significato. La psicanalisi freudiana espresse gli orizzonti di un nuovo universo, l’arte tutta si impregnò del carattere introspettivo di questa pratica: il soggetto non era visto come un Io assoluto, come unico possibile, ma come una delle tante possibilità realizzabili a seconda dei condizionamenti ricevuti dall’ambiente esterno. Nell’osservarsi allo specchio non si rimira se stessi, ma l’idea che si ha di sé: a dare forma al mondo è la nostra caverna[2], espressione di baconiana memoria poiché Bacone intendeva gli idola specus (gli idoli della caverna) come un vetro interposto fra noi e la realtà; a dare forma al mondo è il nostro stesso animo, le nostre stesse convinzioni, a loro volta plasmati dall’educazione, dagli interessi individuali, dalle esperienze esistenziali. Il lavoro delle avanguardie artistiche è stato quello di scardinare i canoni perbenisti e benpensanti dell’epoca, come una goccia che scava la pietra della tradizione, ricordando l’espressione ovidiana gutta cavat lapidem, dettati dal rigore erudito, per proporre tanti modi di concepire l’arte, di concretizzarla, di astrarla, quante sono le personalità, i modi di essere, i pensieri e le storie dell’uomo, dell’umanità intera. Ogni corrente artistica novecentesca ha avuto il suo autoritratto, diventato una sorta di manifesto per il movimento, quindi una sorta di ritratto dell’intera corrente, poiché palesava in sé gli elementi peculiari, i tratti distintivi di ogni avanguardia: basti pensare all’Autoritratto di Picasso, anzi è meglio parlare di autoritratti, simbolo del suo modo disgregante di intendere l’oggetto e baluardo delle sue diverse fasi artistiche, caratterizzato da un contorno deciso e nero, all’olio su tela di Umberto Boccioni in cui l’artista ritrae se stesso adoperando dei colori sfumati, opacizzati, poco nitidi, sulla scia di un richiamo costante ad una vita in movimento, o ai numerosi autoritratti de le saboteur tranquille, nonché René Magritte, il quale raffigurava un sé avvolto dal mistero, calato in prospettive fantastiche, enigmatiche. L’autoritratto nell’ambito delle avanguardie artistiche del ‘900 è il fenomeno attraverso cui l’artista palesa l’immagine che egli ha di se stesso, a seconda della sfaccettatura che di sé vuole mostrare, dei messaggi che vuole comunicare; l’autoritratto non è uno specchio fatto di tela solo per colui che lo realizza, ma può essere uno specchio anche per chi lo osserva sebbene non sia ritratto in prima persona: ci si riconosce nelle intenzioni dell’artista, nei significati sottesi, nella trama di somiglianze, vere o presunte, reali o legate ai desideri, alle ambizioni comuni con l’autore, che trapelano dall’opera, diventando una sorta di autoritratto ideale anche per l’acuto osservatore che si immedesima con il pittore, con la sua capacità di interpretare il visibile, lasciandoci credere che quella possa essere la verità, una delle tante. La nostra.

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[1] Il Secolo breve è un’opera dello storico Eric Hobsbawm oltre ad essere uno dei modi più usuali con cui viene denominato il Novecent,  a causa dei numerosi eventi che lo hanno caratterizzato.

[2] Bacone nel Nuovo Organo afferma che “ciascuno di noi ha una grotta particolare, in cui la luce della natura si disperde e si corrompe”. F. Bacon, La Grande Instaurazione e il Nuovo Organo, in Opere Filosofiche, aforisma 42, Laterza, Bari.

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