La Magia in Oreficeria: la maledizione delle pietre preziose

Di Fabio Strazzullo

Eleganti e raffinate, le pietre preziose da sempre ci colpiscono per la loro bellezza. Tanto da restare indifferenti alla fantasia popolare, che gli ha intessuto intorno una miriade di miti, leggende e talvolta anche poteri esoterici. Tra queste, ce ne sono quattro che hanno assunto l’appellativo di porta sfortuna e vale la pena conoscerle:


-Reggente: è un diamante di colore leggermente blu di 140,64 carati, che fu scoperto nel 1698 in India. La leggenda racconta che fu uno schiavo a trovarlo e che per nasconderlo, decise di procurarsi una ferita inserendo il diamante tra le bende. Lo vendette poi ad un capitano inglese in cambio della libertà, ma questi lo uccise e s’impossessò del diamante, vendendolo a Thomas Pitt, governatore della provincia di Madras, in India. Il capitano, in seguito si suicidò per il peso del rimorso nei confronti del povero schiavo. Thomas Pitt portò la pietra a Londra per affidarla al gioielliere Harris, il quale impiegò due anni a tagliarla e ne ricavò un diamante con taglio a brillante, battezzandolo “Pitt” in onore del suo proprietario. Gli altri diamanti ricavati dal grezzo, molto più piccoli, vennero ceduti allo Zar di Russia Pietro il Grande. Nel 1717 fu acquistato dal duca Filippo II d’Orleans, reggente di Francia durante la minorità di Luigi XV e d’allora, il diamante prese il nome attuale di Reggente, in quanto entrò a far parte dei gioielli della corona francese. Venne incastonato nella corona di Luigi XV in occasione della sua incoronazione. Morto questi di vaiolo, il diamante fu donato alla regina Maria Antonietta, che come si ricorda finì ghigliottinata. Dopo la rivoluzione francese, nel 1804 il diamante fu incastonato nell’elsa della spada di Napoleone Bonaparte, che venne sfortunatamente sconfitto a Waterloo ed esiliato. Nel 1887 venne venduto a privati e oggi si trova esposto al Museo del Louvre a Parigi.

-Diamante Hope: noto anche col nome di “Blu di Francia”, è un diamante color blu di 45,52 carati, la cui storia inizia con un furto. Facente parte di un idolo sacro nel tempio Rama-Sitra in India, venne strappato dall’occhio dell’idolo, che adiratosi lanciò una maledizione a chiunque lo possedesse. Si racconta che l’autore del furto fosse stato il gioielliere Jean-Baptiste Tavernier, che dichiarata bancarotta in patria, decise di ripartire alla volta dell’India per far fortuna, ma morì durante il viaggio. Entrò anche lui a far parte della corona francese a partire dal re Luigi XIV, che lo fece tagliare a forma di cuore. Rubato durante la rivoluzione francese, passò poi nelle mani di un gioielliere che morì d’infarto non appena la pietra gli fu rubata (secondo alcune fonti quando scoprì che il ladro non era altri che suo figlio). Il figlio del gioielliere, presunto autore del furto, non appena seppe di essere la causa della morte del padre, si suicidò. Un suo amico, che aveva trovato il diamante tra i beni lasciati incustoditi, morì dopo pochissimo tempo. Lo ritroviamo a Londra nel 1930, dove fu acquistato da Henry Philip Hope, VIII Duca di Newcastle, dal quale prese il suo attuale nome. Anche qui, cominciò a mietere vittime: Hope si separò dalla moglie, che cadde poi in povertà. Lo prese Jacques Colot che lo vendette al principe russo Kanitovsky prima d’impazzire. Kanitovsky, invece lo donò a una sua amante ballerina, che fu uccisa per strangolamento da lui stesso, che venne poi linciato dal popolo durante la rivoluzione russa. Il gioielliere greco Simon Matharides non fece neanche in tempo a goderselo, che morì sfracellato misteriosamente in un burrone. Il diamante passò allora come dono al sultano turco Abdul Hamid II, che dopo un anno dall’acquisto fu deposto nel 1909 e impazzì. Nel 1910, il gioielliere francese Pierre Cartier lo vendette al proprietario del Washington Post, Edward Beale McLean e qui fu una strage nel vero senso della parola: la prima a morire fu sua madre, due cameriere e suo figlio di dieci anni sotto una macchina. In seguito, McLean si separò dalla moglie, morendo per alcolismo mentre lei, che non si separò mai dalla pietra, di polmonite a sessant’anni dopo che la figlia morì per una forte dose di barbiturici nel 1946. L’ultimo proprietario fu il gioielliere statunitense Harry Winston, che nel 1958 donò la pietra allo Smithsonian Institute di Washington, dov’è custodita tuttora.

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-Orlov nero: questo diamante nero di 67,50 carati era l’occhio di una divinità indù in India. Non sappiamo la sua origine, ma resta il fatto che questa pietra venne rubata da un soldato francese, che con la scusa di volersi convertire, riuscì a truffare i monaci del tempio dov’era custodita e da qui sarebbe iniziata una maledizione che avrebbe colpito tutti quanti i suoi possessori. Fuggito a Madras, il soldato francese avrebbe venduto poi il diamante ad un capitano inglese e passò di mano in mano fino a ritrovarsi ad Amsterdam in possesso di un mercante armeno, Saleras che lo vendette nel 1775 al conte Grigorij Orlov, di cui oggi porta il nome. Si dice che nel 1932 il gioielliere J. W. Paris lo portò in America e poco dopo si suicidò gettandosi da un grattacielo di New York. In seguito appartenne a due principesse russe e pare che entrambe si suicidarono gettandosi da una finestra negli anni ’40. Tuttavia diversi autori ritengono che questi episodi siano del tutto inventati per dare più popolarità al diamante. Non si è trovato alcun dato che confermi persino che le suddette persone siano realmente esistite. Sappiamo comunque che il gioielliere di New York Charles F. Winson, lo acquistò nel 1947 e lo tagliò in tre diamanti più piccoli allo scopo di interrompere la presunta maledizione. Il diamante più grande, di 67,50 carati con taglio a cuscino, fu poi acquistato dalla gioielleria Cartier, che lo inserì in un pendant. Nel 2004 il gioiello fu acquistato dal gioielliere J. Dennis Petimezas, che dichiarò di essere sicuro che la maledizione sia era ormai interrotta. Oggi è in collezione privata.

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Finora si è parlato di diamanti, ma c’è un’altra pietra preziosa, che ha la fama di porta sfortuna d’eccezione e prova le proprietà che le persone attribuiscono spesso alle pietre preziose, al di là del loro valore scientifico o monetario. Sto parlando dell’
-Ametista maledetta: questa pietra, come si evince dal nome, non è un diamante ma una varietà violacea di quarzo ed è poco conosciuta al grande pubblico. Eppure ha avuto lo stesso potere di morte dei diamanti, solo che il suo venne semplicemente esorcizzato e non spezzato come l’Orlov nero, evitando così che ulteriori possibili acquirenti morissero. La pietra è detta anche “Zaffiro di Delfi” ed è di forma ovale. Fu rubata dal tempio del dio Indra in India nel 1856 nel corso di un sanguinario ammutinamento e portata in Inghilterra da un ufficiale della Cavalleria del Bengala. Tornato, tutta la sua famiglia sembrò afflitta da vari problemi di salute e finanziari. Davano la colpa ai loro problemi su una serie di investimenti falliti fatti dall’ufficiale stesso e suo figlio. Le cose presero una brutta piega quando un loro amico di famiglia si suicidò mentre era in possesso dell’Ametista. Lo scienziato Edward Heron-Allen, scienziato al Museo di Storia Naturale di Londra, ricevette la pietra dal figlio dell’ufficiale nel 1890 e da qui anche lui cominciò ad avere una serie di disgrazie e sfortune, portandolo così a credere che la pietra fosse maledetta. Cercò di disfarsene, cedendola a degli amici interessati ma questi dopo poco la restituirono. Heron-Allen decise allora di gettarla in un canale, ma tre mesi dopo un commerciante di Wardour Street, che l’aveva acquistata da un dragatore, gliela restituì. Alla fine Heron-Allen decidese d’incastonarla su una montatura d’argento decorata da incisioni alquanto misteriose raffiguranti elementi di astrologia ed alchimia per neutralizzare i suoi effetti e la chiuse in sette piccole scatole, dandola alla sua banca e specificando che il pacchetto non doveva essere aperto fino a 33 anni dopo la sua morte che avvenne nel 1943. Il pacchetto venne poi donato dalla figlia al Museo di Storia Naturale di Londra insieme a una lettera con su scritto testuali parole del padre: “Questa pietra è maledetta, macchiata con il sangue e il disonore di chiunque la possieda…è stata imballata in sette scatole e depositata presso i miei banchieri con le indicazioni di non aprirla dopo la mia morte per trentatré anni. Chiunque apra il pacchetto dovrà leggere prima questo avvertimento, poi farà quello che vuole con il gioiello. Il mio consiglio a lui o a lei, e quello di gettarlo in mare.” Tutt’oggi, l’Ametista maledetta è esposta nella sezione di Mineralogia del Museo di Storia Naturale di Londra.

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BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

-Gérard Mabille, Les Diamants de la couronne, Éditions Gallimard, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris, 2001.
-Richard Kurin, Hope Diamond. The Legendary History of a Cursed Gem, HarperCollins & Smithsonian Press, New York, 2006.
-Giuseppe Fletther, L’occhio di Brahma, 2017.
-Christopher Blayre, Lo zaffiro viola, a cura di Gianluca Salvatori, Mattioli 1885.