Joan Miró: “l’asinello arlecchino sulla scala canta blu”

di Laura Corchia

“L’ho dipinto nello studio di Rue Blomet. I miei amici d’allora erano i surrealisti. Ho cercato di plasmarvi le allucinazioni provocate dalla fame che soffrivo. Non dipingevo ciò che vedevo nei sogni, come sostenevano in quell’epoca Breton e i suoi, ma era la fame che mi provocava una specie di trance simile a quella che sperimentavano gli orientali”.

Così Joan Miró nel 1978 ricordava lo stato mentale in cui versava quando dipinse Il carnevale di Arlecchino.

Joan Miró , Carnevale di Arlecchino, 1925
Joan Miró , Carnevale di Arlecchino, 1925

Erano gli anni a cavallo tra il 1924 e il 1925 e Miró si era avvicinato al Movimento Surrealista. Non è però il sogno ad ispirargli questa bizzarra accozzaglia di elementi fantastici, ma la fame. La scena è ambientata nell’atelier del pittore, che appare completamente trasfigurato. Gli unici elementi reali sono un tavolo, una scala e una finestra. Delle figurette fantastiche, in parte zoomorfe in parte geometriche, danzano e fluttuano nello spazio al ritmo delle note musicali emesse da una chitarra.

Volatili, pesci, rettili, insetti e stelle comete animano la composizione, mentre dalla finestra fa capolino un triangolo nero che simboleggia la Tour Eiffel. Gli animali sono quelli che lui stesso amava e anche il suo gatto appare sulla scena, fedele compagno di tutti i suoi giorni. La scala indica la fuga dal mondo e compare spesso nei quadri del grande maestro spagnolo.

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Questi esseri gioiosi e benigni raccontano dell’eterno carnevale dell’anima, “il lato magico delle cose”, come lo stesso Miró spiegava.

“Un ometto così, con le guance di un colore fra la pesca e lo zafferano, rubizzo, e con certi occhietti vispi, come i bruchi di notte nel buio di una siepe: vestito, pio, di tutto punto, col gilet perfino, cravatta, camicia bianca, i pochi capelli lisciati con cura. Questo è Miró, il pittore forse più rivoluzionario del secolo. Anche più di Picasso. Quando cominciò, cominciò dal nulla; la sua fantasia gli creava un vocabolario semplice fino ad essere primario, ma proprio perché primario, sconvolgente. Era una fantasia lirica, come può essere lirica quella di un bambino che con due sassi e una foglia improvvisa una pietanza. Dava senso alla macchia, ai punti disseminati come stelle di risulta: non si riusciva a collegare questi antefatti di figure che metteva insieme. Eppure stavano insieme: un valore nuovo, dissueto, scaturiva da quell’accozzaglie fluttuanti su un fondo inespresso. Spesso erano ampie superfici abbandonate a se stesse, come lievitanti, come lo specchio di una strada bagnata in cui si incollano le foglie dell’autunno, su cui le luci scivolano senza fare presa. Indimenticabili quadri pieni di un mistero, non era allegoria, non era simbolo: erano niente ed erano pittura. Ed oggi sono i quadri moderni più cari. […] Queste macchie, queste stelle, Miró è come se le dipingesse sulla notte, quasi su una lavagna, o su un cielo pieno di stracci di nuvole, e allora i colori splendono come le lanterne rosse delle interruzioni stradali: di lì non si passerà mai. Né si vuole passare. Ci si arresta, davanti a un quadro di Miró, come su un precipizio; guardare acquista un valore a sé, non per quello che si guarda, ma perché si guarda. Nessuno potrà mai raccontare uno dei suoi quadri. […] Il tempo di Miró non è finito, perché non è mai incominciato: Miró nasce senza nesso, quasi al di fuori della sua persona fisica, come se i suoi quadri si formassero al di fuori di lui, al modo che si legge il pensiero”. (Cesare Brandi, A cena con Miró, 1973).

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